La memoria come strumento indispensabile per affinare lo sguardo, difendere libertà e diritti in una società in cui si avverte con forza il rischio di una deriva autoritaria. A sottolinearlo Mimmo Limongiello, vicepresidente dell’Anpi provinciale, nel corso del confronto al Circolo della stampa, dal titolo “Decolonizziamo la citta’”. “La città a cui facciamo riferimento – spiega Limongiello – è la polis intesa come spazio pubblico. L’Italia ha sempre faticato a fare i conti con il proprio passato coloniale, di qui la volontà di interrogarsi su questa memoria nel novantesimo anniversario dell’attacco all’Etiopia del 3 ottobre 1935. Se è vero che abbiamo assistito negli ultimi anni al fiorire di un’ampia storiografia dedicata al colonialismo italiano, sono ancora tante le scorie di quel passato che continuano a condizionare la nostra cultura, nei rapporti con l’alterita’ e non solo. Di qui la necessità di decolonizzare la nostra cultura, a partire dal linguaggio per liberarsi da una mentalità che continua ad essere fortemente radicata e mettere da parte qualsiasi prospettiva eurocentrica”.
Un’esperienza, quella coloniale, che coinvolse anche l’Irpinia con l’internamento di oltre 100 confinati etiopi tra il 1937 e il 1940, all’indomani dell’attentato al vicere di Etiopia Rodolfo Graziani. “Il conflitto in Etiopia – spiega Limongiello – era stato accuratamente preparato per vendicare le precedenti sconfitte. Lo stesso internamento della classe dirigente rispondeva al tentativo di creare una società fascista dalla radice e isolare teste pensanti che facevano paura. Tanti furono gli orrori e le violenze commesse dal governo fascista nel periodo coloniale”.
È quindi Erminio Fonzo, docente all’Università di Salerno, a sottolineare come sia necessario decostruire il mito del colonialismo bonario, degli italiani brava gente, un colonialismo attuato senza la mediazione della classe dirigente locale, a differenza di quanto fecero le altre potenze europee, basato sulla convinzione di una presunta superiorità razziale con un crescendo di crimini e conseguenze profonde sulla politica estera e interna, dalla repressione violenta all’indomani dell’attentato a Rodolfo Graziani con una vera caccia all’indigeno alla deportazione nei campi di concentramento”.
Quindi ricostruisce la pagina dolorosa dell’arrivo negli anni ’30 di oltre un centinaio di aristocratici etiopi a Mercogliano, ospitati dall’istituto delle Suore Benedettine e dall’Abbazia del Loreto. “Ad arrivare – spiega – furono prima le donne nel convento delle Suore Benedettine e poi gli uomini all’Abbazia del Loreto. Una scelta, quella di Mercogliano, determinata dalla mediazione di Padre Barrassina, in virtù della disponibilità di spazi che potessero accogliere i confinati. In molti casi si trattava di uomini e donne che avevano già scelto di sottomettersi al fascismo, era chiara la volontà del regime di fare piazza pulita della classe dirigente locale, di fare pressione su di loro perche si rassegnassero ai nuovi padroni. Erano esponenti del clero, dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, con tanto di domestici al seguito, dalle figlie e mogli di Charles Martin, ambasciatore etiope vicini al Negus ad un’autentica combattente come Senedu Gebru. Certamente, vivevano in condizioni migliori rispetto a quella dei confinati fascisti anche se dovevano sottostare a numerose restrizioni, non potevano uscire se non accompagnati dai carabinieri, per un raggio non superiore a 300 metri ed erano impossibilitati a comunicare con l’esterno. Una deportazione che ebbe dure ripercussioni anche sul piano psicologico, a causa dello sradicamento di questi uomini e donne dalla loro terra. Si trattava di figure che avevano un ruolo importante nel loro paese e che improvvisamente erano costretti all’ozio. E se è vero che era proibito avere qualsiasi contatto con la popolazione locale, qualche interazione ci fu comunque quando nella seconda fase alcune persone furono trasferite in abitazioni private. Da parte della comunità di Mercogliano non ci fu razzismo ma curiosità. Intorno al 1940 furono infine rimpatriati. Una scelta, quella dell’internamento della classe dirigente, che si rivelerà un’arma a doppio taglio per il governo fascista, poichè ribadiva la volontà di governare in modo dispotico, rendendo impossibile la pacificazione del paese. Solo con la sostituzione di Graziani con Amedeo d’Aosta ci sarà una svolta nella politica coloniale con modalità di governo ugualmente autoritarie ma un atteggiamento più aperto nei confronti delle classi dirigenti locali”. E’ quindi Giovanni Capobianco, presidente provinciale Anpi, a ricordare i tanti confinati antifascisti in Irpinia che vissero in condizioni durissime e pagarono un prezzo altissimo alla loro lotta e le tante donne che ebbero un ruolo decisivo nella Resistenza. Interessante anche il contributo alla riflessione di Annibale Cogliano, anche lui autore di un prezioso studio dedicato ai dignitari etiopi deportati a Mercogliano “Il processo di decolonizzazione deve essere innanzitutto culturale, penso a politici come Mancini che viene citato solo come assertore del diritto internazionale senza ricordare la sua giustificazione del colonialismo come strumento necessario per portare la civiltà ad altri popoli”.