“Arsura somiglia a un viaggio e non uno qualsiasi ma piuttosto a “Il viaggio”, quello esistenziale per eccellenza in cui la vita stessa consiste e nel quale il lettore viene coinvolto, cui partecipa pagina dopo pagina seguendo una guida limpida e sensibile quale è la voce della poeta stessa”. Così Rossella Tempesta descrive la raccolta “Arsura” di Emilia Cirillo, edita da Terebinto. Una poesia che richiama nel titolo i versi di Montale “l’anima verde che cerca vita là dove solo morde l’arsura e la desolazione” e la ricerca disperata di acqua di chi sente di essere in un deserto senza via d’uscita. Versi capaci di guardare il mondo al di sopra della superficie e di trarne un canto, di esplorare l’anima e i suoi frammenti, i desideri, lo scoramento, il coraggio di ricominciare. Poichè la poesia è proprio questo, ci dice Tempesta “il desiderio e la volontà di includere l’altro nella stessa arsura che quel desiderio ci ha fatto provare”. Un viaggio poetico intimo e potente capace di richiamare gli haiku dei poeti medievali giapponesi nella forza delle immagini e la sensibilità di un’autrice come Emily Dickinson. Costante il dialogo con il tu, con l’altro da sè fino a “sporgersi dal proprio privato ad osservare il mondo, le cose, gli altri, gli accadimenti e persino gli insulti del destino, tanto da fare della propria esperienza un paradigma”. Dopo una vita dedicata alla scrittura in prosa, Emilia si cimenta con una raccolta in versi che racconta la vita con le sue perdite, il suo buio e la sua luce, si fa riflessione sul tempo, desiderio di abbandonarsi ai ricordi o incapacità di guardare al futuro a partire dall’alternarsi delle stagioni, dell’alba e del crepuscolo, che richiamano le differenti età dell’uomo. “Certe sere arrivano improvvise/sorridono alla nostalgia/occupano le sedie intorno alla tavola/divorano i piatti vuoti”. Centrale il tema della mancanza “Se non fosse così rovente l’aria/potrei venire da te/nel giardino chiaro/tu seduto all’ombra (il sole che amavi non ti fa bene)/sei vestito di lino, color avorio specifichi preciso/e hai le gambe accavallate/la testa un po’ inclinata a lato…/Il tempo è passato/per te che sei seduto e aspetti (non riesco a pensarti immobile)/per me che vado annaspando/esiliata da amore e abbracci/dalla nostra quotidiana abitudine del caffè al mattino/della spesa del sabato/del cinemetto il giovedì”. Fino a chiedersi “Dove andremo, dove ci ritroveremo/se ci ritroveremo in quella marea pallida/ci riconosceremo?…Si resta come candele spente/su una torta di compleanno/tra briciole di pan di Spagna/ e riccioli di crema/una forchetta con il suo boccone/abbandonata nel piatto”. O ancora “Cerco foto di me e di te/ per come saremmo adesso/dopo una vita insieme/quante rughe potrei contare(quanti sorrisi/e case e luoghi condivisi/ma non ne trovo/almeno per il presente/e l’inimmaginabile futuro”. Colpisce l’attenta scelte delle immagini e delle parole, un lessico mai aulico, legato a campi semantici differenti, che va sempre al di là di luoghi comuni e associazioni stereotipate, ma capace sempre di restituire stati d’animo, come alla ricerca del correlativo oggettivo, fin quasi a sorprendere il lettore.
Più volte ritorna l’idea del tempo sospeso, dell’esilio “Mi sono ritirata dalla vita/non ho preso i voti/ne ho scelto un buon ritiro/mi sono messa da parte/come un vestito che si cerca/come un amore che si crede vivo/ma non si ama più/in una bolla di vetro/tra foglietti e lapis/procedo nel mio lavoro minuzioso/mi adeguo ai bordi arrotondati/cerco sedute marsupiali”. Poichè oggi è il tempo dell’attesa che si contrappone ai ritmi frenetici della giovinezza, “la vecchiaia è lentezza/ricordo di percorsi insieme/ con la grazia e il desiderio/che ancora oggi si rinnova/in questo attendere il tempo/angoscia sottile velata di colore”. E “Il crepuscolo è l’ora più crudele/ci chiede conto del giorno/in una casa arsa/a a contare mattonelle che si staccano/dalle mura”. Emilia ci consegna paesaggi, squarci di cielo, mare e terra, in un legame forte tra l’uomo e la natura, sono giardini, distese di mare che evocano la bellezza e l’armonia ma che nulla possono contro il tempo, che anzi richiamano quella vita che non può più essere vissuta appieno, evocano gli spazi dell’anima tra silenzio e desiderio di resurrezione “Cosa nasconde il giardino/quando al tramonto si alzano/voci di canto/l’albero di fico si inchina al tempo/e non c’è forza di drizzarlo/così il corpo che si affianca/cede in gesti rituali”. Eppure il confronto con l’altro è sempre salvifico in questa circonferenza che è la vita mentre la solitudine, il ripiegarsi su di sè uccide “A me in quest’universo di rimandi agglutinati/è toccato essere solo un punto della circonferenza/costretto in un circuito/senza possibilità di entrare in altri insiemi/se non in quello costituito da me stessa”. Emilia ci parla indirettamente di sè ma anche di questa terra, ci ricorda che le radici non contano “Facciamola finita con le radici e l’appartenenza/con il dragone che mai non dorme/con la dea Mefite che appesta l’aria/sono altri che strappano per noi le radici”. Per scoprire che “Partire è necessario/un bonus quotidiano all’esistenza” che “La fragilità ha il suo valore/insegna a maneggiare con cura/a vedere schiene solcate da ferite”. E che non ci si può fermare anche se “ogni giorno si trasforma in sera”, anche se la propria barca appare arenata “in una conca di immobilità”, “Ora mi tocca remare ancora/ora che l’acqua lentamente copre le rughe della terra/mi spinge oltre per volontà/la notte ha coperto ogni illusione/azzurra si insinua una luce fredda/un mattino piatto come un angolo al cuore”. Il volume sarà presentato il 13 giugno, alle 18.30, all’Angolo delle storie, con Rossella Tempesta e Clara Spadea. Modera Gianluca Amatucci