Il senso identitario di appartenenza, che sfocerà nella coscienza di classe, matura nel quarto di secolo che va dal 1889 al 1914, periodo carico di fermenti socio-culturali, lavorativi, politici ed economici. Questi, tra gli argomenti del libro di Nicola Savino, presentato alla Camera dei deputati (https://webtv.camera.it/evento/26784) con: Andrea Covotta, responsabile di Rai Quirinale, già inviato e vicedirettore del Tg2 e del GR Rai, scrittore; Toni Ricciardi, deputato, vicepresidente del Gruppo Pd, professore associato di Storia delle migrazioni e delle catastrofi; Pino Ammendola, attore, regista, sceneggiatore, doppiatore e scrittore; Floriana Mastandrea, sociologa, giornalista e scrittrice ed Eleonora Savino, psicologa, psicoterapeuta, docente presso l’Istituto (post universitario) Gestalt Therapy Kairòs.
Andrea Covotta: lo scenario descritto da Savino ha una ricaduta di grande attualità “Nicola Savino ha fatto molta attività politica e questo posto (ndr, Camera) gli sarebbe stato caro. Negli ultimi anni della sua vita, tra noi si era creata una grande simbiosi: ne avevo forte stima intellettuale e gli avevo curato anche la prefazione del libro dedicato al terremoto. Il quarto di secolo che Savino inquadra nel suo lavoro sulla formazione della coscienza di classe, è un periodo di significativi cambiamenti, sia per l’Italia che per l’intera Europa. L’Italia si era da poco composta (1861) in maniera disarticolata: cominciavano ad emergere con forza le differenze tra Nord e Sud e a tutt’oggi, la Questione meridionale è ancora un problema nazionale. Anche per questo il saggio di Savino ha una forte ricaduta nella situazione attuale. Mentre nascevano i Fasci siciliani del lavoro, presidente del Consiglio era Francesco Crispi, anch’egli siciliano, prima garibaldino, poi mazziniano e in seguito convertitosi alla monarchia e ai Savoia, che represse duramente le ribellioni sociali. Crispi fu fautore dell’espansione coloniale e dei rapporti con Austria e Germania. In quel periodo iniziavano ad emergere alcune industrie del Mezzogiorno, tra cui quella della famiglia Florio in Sicilia. I Florio erano proprietari di grandi flotte navali, commerciavano il tonno (si erano inventati anche l’asilo nido nella tonnara) e il marsala, possedevano un’industria chimica, avevano compartecipato alla costruzione del Teatro Massimo di Palermo e acquistato le isole Egadi. Protagonisti anche della Belle époque, autori della targa Florio, avevano rapporti con grandi musicisti, come Puccini. L’espansione economica dei Florio coincise con la politica di Crispi. Guardare al Sud come arretrato, dunque, è sbagliato: c’era anche un’imprenditoria illuminata. Al Nord intanto, prendeva piede il triangolo industriale Genova-Torino-Milano. Torino in particolare, dava grande impulso alla crescita del Paese con la fabbrica della FIAT ed era anche fucina di grandi intellettuali di sinistra: Gramsci, Togliatti, Terracini o liberali, come Piero Gobetti, che sarà ucciso a soli 25 anni dai fascisti. Gobetti, autore della rivoluzione liberale, aveva polemizzato col gruppo di Ordine nuovo guidato da Gramsci e Togliatti e, seppur molto giovane, aveva fatto pubblicare le opere di Luigi Einaudi e la prima edizione di Ossi di seppia di Montale. Umberto Terracini invece, sarebbe diventato presidente dell’Assemblea costituente, nonché uno degli autori della nostra Costituzione. Altrettanto vivace in quel periodo era la Romagna, citata a proposito dei fatti della Settimana rossa.
Tra i protagonisti della Settimana rossa, il direttore della Voce repubblicana, Pietro Nenni (che diventerà socialista), nel periodo in cui Mussolini dirige L’Avanti! Sarà la Prima Guerra mondiale a dividere il mondo della sinistra, con la scissione del Congresso di Livorno del 1921 (ndr, scontro tra corrente riformista e rivoluzionaria). A causa del conflitto mondiale, Mussolini lascerà sia la direzione del giornale che il Partito socialista, fonderà Il Giornale d’Italia e, richiamando i Fasci siciliani, darà vita al Partito fascista (ndr, Fasci italiani di combattimento), nel 1919, allorquando nascerà anche il Partito Popolare. Gli avvenimenti che ricostruisce Savino, attingendo a una ricca bibliografia, sono determinanti per quello che accadrà in seguito e il libro si collega anche alla nostra attualità. Toni Ricciardi: siamo stati migranti, ma si fatica a ricordare ciò che eravamo Il tema della migrazione spesso non contestualizzato, va collegato ai processi sociali ed economici, a loro volta inscindibili dalle questioni geopolitiche e strategiche. Nell’ambito delle grandi rivoluzioni industriali, delle leghe dei lavoratori, della nascita identitaria di classe, cambiano i processi umani, ed in tutto ciò, l’emigrazione viene trascurata, quasi come se non fosse esistita. Nel mio vero mestiere, di Storico delle migrazioni, con i miei colleghi, sto cercando faticosamente di ribaltare la gerarchia delle priorità della storia europea, mettendo al primo posto la lettura della migrazione di ieri e di oggi. Negli ultimi tre secoli, i Paesi a maggior migrazione sono stati il Regno Unito, la Germania, e quella che oggi viene descritta come la ricca Svizzera. L’emigrazione ha riguardato ogni civiltà, ogni democrazia e ogni fase della storia dell’umanità. Si fa fatica, però, a ricordare quello che eravamo. Se pensiamo all’attuale dibattito pubblico, sembra che parti di questo Paese, non abbiano mai conosciuto un giorno di emigrazione, eppure le grandi ondate migratorie per il mondo, sono partite dal Settentrione. Regioni di grande emigrazione, almeno nei primi 25 anni post unitari, furono il Veneto, fino agli anni Settanta del XX secolo, la Lombardia, la Liguria, il Friuli, il Piemonte. Si ha la sensazione che siano state dimenticate perché l’Italia, oltre a essere un Paese giovane, abbracciò la visione imperialistica che precedette il fascismo, figlia della conferenza di Berlino (1884) voluta da Bismarck, che divideva il Continente africano tra le potenze europee, per spartirsene il mercato. Si era nella fase della seconda rivoluzione industriale, in una lenta, ma progressiva meccanizzazione, prodromo all’industrializzazione, che avrebbe condotto al trasferimento di braccia dall’agricoltura, non più conveniente e troppo faticosa, all’industria. A ciò si aggiunse l’urbanizzazione: in questi processi si innestò anche l’emigrazione.
Fino alla rivoluzione francese, l’immigrazione era vista come una risorsa, l’emigrazione come una piaga. L’imperialismo europeo, la Belle époque, le democrazie liberali, Bismarck, la considerarono una valvola di sfogo. Nel 1888 Nitti, in contrapposizione alla vincente teoria malthusiana, ne: L’emigrazione italiana e i suoi avversari, difese il diritto ad emigrare, opponendosi al disegno di legge (ndr, del 15 dicembre 1888) per bloccare l’emigrazione, come una violazione della libertà individuale da parte di coloro che temevano di perdere forza lavoro da sfruttare a basso costo. In Italia, tra gli ultimi Paesi a disciplinare il fenomeno migratorio, il 31 gennaio 1901, fu promulgata la prima legge istitutiva per la “Tutela giuridica degli emigrati”, per agevolare le “modalità d’espatrio”. La legge, all’articolo 6 prevedeva (in sintesi): “é emigrante colui che si reca al di là dello Stretto di Gibilterra o del Canale di Suez e che viaggia in terza classe”. Questo, nonostante l’emigrazione più che verso gli Stati Uniti, si indirizzasse prevalentemente verso i Paesi europei, come le statistiche ampiamente dimostrano. Quel cliché verrà abbattuto solo nel 1919, quando sarà introdotto per la prima volta che: “è emigrante colui che si reca all’estero per lavoro”.
Nel frattempo, presso la stazione di Milano era nato il Centro di smistamento che, nel secondo dopoguerra, diverrà il grande Centro per l’emigrazione (ndr: Coi, Centro orientamento emigranti). Sia in quella fase che nelle successive, l’emigrazione diverrà una costante e una grande leva economica per il nostro Paese. La Storia ci dice che ad alcuni popoli l’emigrazione è stata impedita, come alla Germania del secondo dopoguerra: per gli Alleati, i tedeschi dovevano rimanere in patria per ricostruirla. Quando lo scenario comincia a modificarsi e le democrazie liberali vanno in crisi, è il momento storico in cui le migrazioni assumono un ruolo degno di attenzione. Oggi, le democrazie di stampo liberale vengono messe in difficoltà da narrazioni semplificate nazionaliste e populiste: qualcuno immagina, in un mondo sempre più interconnesso, che ognuno possa salvarsi a casa propria. È l’esatto contrario di ciò che sostiene Savino, quando, oltre a occuparsi di emigrazione, rievoca la nascita della coscienza di classe, che è tale se si richiama a uno dei dettati fondamentali: proletari di tutto il mondo unitevi. Le frontiere, gli steccati nazionali non esistono, perché esiste la coscienza di classe. Pino Ammendola ha letto significativi brani del libro, dallo scenario introduttivo, ai Fasci siciliani, alla Camera del lavoro, al Partito dei Lavoratori Italiani, agli eccidi di Baganzola, Comiso e Roccagorga, fino al Mussolini prima maniera, che, dalle pagine de L’Avanti, condannava gli “eccidi proletari” consumati sulla pelle di indifesi cittadini, annunciando: “Il nostro è un grido di guerra. Chi massacra sappia che può essere massacrato”. Iniziò così una lunga ed aspra campagna mediatica condotta dall’“Avanti!” contro il Governo e, per quell’articolo, subì una denuncia, fu processato per vilipendio a mezzo stampa e assolto dal tribunale.
Floriana Mastandrea, coordinatrice dell’evento, si è soffermata in particolare sugli scioperi femminili di Milano, le piscinine e la legge sul lavoro femminile. “A gennaio del 1902 la Federazione dei ferrovieri, minacciando lo sciopero, rivendicò e ottenne aumenti salariali e una più umana qualità del lavoro, così come a Milano, gli operai della Pirelli. Fece scalpore, invece, la protesta delle apprendiste sarte, cravattaie e stiratrici, con lo sciopero delle “piscinine”, bambine e adolescenti, tra i 9 e i 14 anni, che lavoravano 11-12 ore al giorno, sottopagate e per di più, sottoposte ad abusi e violenze nelle strade e nelle fabbriche. Stessi diritti delle piscinine rivendicavano le operaie del settore cotoniero, finché l’indignazione popolare per lo sfruttamento della manodopera femminile, non si allargò all’intero stivale, tanto che la Camera approvò la legge sulla protezione del lavoro minorile e femminile. La norma elevava a 12 anni l’impiego minorile e fissava il massimo di una giornata lavorativa femminile in fabbrica, in 12 ore. Eleonora Savino, che ha curato la pubblicazione postuma del libro di suo padre, insieme al marito, ing. Vito Bretti, allo zio, sen. Angelo Flammia, a Delfina Iuspa e alla casa editrice Robin, ha descritto la figura di Nicola Savino, nato ad Ariano Irpino il 15 ottobre 1953 e mancato ad Avellino l’11 novembre 2021. “Funzionario della Regione Campania, è stato un uomo che ha contribuito a vivacizzare l’atmosfera culturale di Ariano. Impegnato in politica, prima nella socialdemocrazia, poi nel Partito democratico, come sociologo e studioso, dal 1975 al 2021 ha pubblicato oltre 22 libri, occupandosi di sociale (Sopravvissuti), storia (La battaglia di Poitiers) religione (Nacque al mondo un sole); emigrazione e immigrazione (Quattro racconti dall’Africa), nonché del proprio territorio (Ariano che se ne va). Insieme al fraterno amico Luigi Lambiase, aveva istituito l’associazione culturale Book zone, per promuovere la scrittura e i libri, che adesso contribuisco anch’io a portare avanti”. Tra le sillogi poetiche di cui Nicola Savino è stato autore: Stiamo partendo per altro tempo, da cui Eleonora ha letto, Vivere la speranza.
A completare il quadro storico del saggio, un’appendice con gli eventi della campagna d’Africa, fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale. Un libro utile per chi non conosce la Storia o per chi volesse approfondirla e soprattutto, per comprendere come faticosamente siano stati conquistati i diritti e come oggi sia necessario tenere alta la guardia per non perderli.
NICOLA SAVINO All’origine della coscienza di classe – Un quarto di secolo di lotte operaie e contadine (1889-1914) Ed. i Robin & sons Pagg.161 € 14
Floriana Mastandrea