Quando si parla di Antonio La Penna, che, da grande storico di formazione marxista e da filologo sullo studio della parola ha costruito un intero percorso di studi e di vita, schivare la retorica, con il suo portato di insidie e di approssimazioni, è segno di doveroso rispetto nei confronti dell’uomo e dell’intellettuale, oltre che di una disciplina sviluppata con rigore estremo fino a farsi pratica di vita.
Più saggio perciò far parlare i testi, quantunque si tratti di impresa ardua in una produzione sterminata, che attraversa circa un settantennio, toccando tutti i momenti e le componenti della cultura classica, latina soprattutto, e dei suoi autori: da Virgilio ad Orazio, da Properzio a Marziale, da Sallustio a Tacito, da Persio ad Ovidio. Frequenti inoltre le incursioni (che è sicuramente più che riduttivo definire tali) nel campo delle letterature moderne, italiana e francese in particolare; per non parlare poi dei numerosi interventi di La Penna sui temi dell’attualità politica e culturale, in cui più emerge la figura dell’ uomo di sinistra (certo, con tutte le disillusioni maturate soprattutto nell’ultimo trentennio), mai tenero con il potere e fermamente convinto della funzione progressiva e sociale (nel senso di condivisa, almeno in linea potenziale, da tutti) della conoscenza.
Di recente mi è accaduto di rileggere “Orazio e la morale mondana europea”, il saggio di La Penna che costituisce l’introduzione all’edizione sansoniana di tutte le opere oraziane. È un testo esemplare perché restituisce la visione della letteratura e il metodo di La Penna in tutta la loro ricchezza e in tutte le loro articolazioni. Il poeta di Venosa emerge non solo sotto il profilo strettamente letterario ed artistico ma nella varietà e la complessità della sua figura, comprese debolezze e contraddizioni: il rapporto contrastato con il potere (cui in fondo guarda con disprezzo, ma di cui subisce la fascinazione), l’orgogliosa rivendicazione del proprio ruolo di letterato, il sogno tutto umano di conseguire una fama destinata a valicare i secoli, la scelta di una filosofia che nel suo dichiarato eclettismo presenta tuttavia un saldo ancoraggio a un’etica che mira a poter bastare a se stessa, senza i condizionamenti della ricerca della ricchezza a tutti i costi e delle lusinghe della società del tempo.
Alla base dell’analisi dello studioso irpino, l’emblematicita’ della figura di Orazio come intellettuale della crisi, in un contesto dominato dall’assenza della politica (quanto suona dolorosamente attuale questa locuzione). “Il limite (di Orazio) – scrive La Penna – è (quello) di quasi tutta la cultura filosofica, di quasi tutta la riflessione morale antica successiva alla crisi della democrazia greca del V secolo. La sconfitta della democrazia radicale da parte dei conservatori e, più stabilmente, dei moderati escluse la possibilità di mutamenti sociali profondi (…) Nelle monarchie ellenistiche e nell’impero romano l’intellettuale non partecipa alla direzione dello stato né pensa, in genere, a fondare lo stato su basi nuove, elaborate dalla filosofia (…) Contemporaneamente anche la dottrina politica, la propaganda, la discussione politica erano impregnate di moralismo…. “.
Antonio La Penna ha continuato a dispensare dottrina e conoscenza fino agli ultimi giorni di vita, nel segno di una vecchiaia operosa che avrebbe ben figurato nel ” De senectute” ciceroniano. Nel 2021 aveva dato alle stampe la riedizione, rivista e ampliata, de “La favola antica. Esopo e la sapienza degli schiavi”, in cui evidenziava mirabilmente la funzione “politica” della favola, alla quale era sovente affidata la protesta dolente e sommessa delle classi subalterne, le quali, riprendiamo ancora le sue parole, ” non avevano abbastanza autonomia culturale e ideologica per elaborare un’impostazione dell’analisi politica e sociale radicalmente diversa” e allora finivano per affidare malessere e dissenso nei confronti di quello che appariva l’ordine immutabile delle cose al linguaggio simbolico della fiaba.
Solo a qualche mese fa risale infine la pubblicazione del primo volume di “Filologia e studi classici in Italia tra Ottocento e Novecento”: una riflessione sul ruolo della propria disciplina che intende essere anche un messaggio per il futuro, per un sapere che non sia mai mera erudizione, ma ricerca in grado di svolgere una funzione civile, di vitale importanza in un tempo aspro e difficile come quello attuale.
Luigi Caputo
Partito della Rifondazione Comunista – Unione Popolare
Federazione di Avellino