di Vincenzo Di Lalla
Se n’è andato Jorge Mario Bergoglio, nato nel quartiere di Flores, a Buenos Aires, da una famiglia italiana della piccola borghesia piemontese e salito al soglio pontificio la sera del 13 marzo 2013. Se n’è andato in un mattino di primavera, mentre la piazza accoglieva quell’umanità festante e chiassosa chiusa nella promessa di un improbabile ritorno. Ci ha lasciato l’uomo venuto da lontano, innamorato della vita, voce degli ultimi, dei disperati, che sognava di vedere seduti allo stesso tavolo vittime e carnefici, senza vergogna, materializzando il messaggio ecumenico del perdono. Se n’è andato in silenzio, dopo aver salutato la sua gente in quella piazza brulicante che ripeteva il suo nome come un canto di libertà, in un incrocio infinito di sguardi, nostalgie, speranze che non avevano il sapore dell’addio, ma un arrivederci in un altrove appena riscattato. Quello di Bergoglio è stato il pontificato delle prime volte e il primo a guidare la Chiesa in un tempo di guerra dopo i grandi conflitti del Novecento. Bergoglio è stato lo strenuo difensore dei diritti umani, consacrando questo pensiero nelle sue azioni e in quel gridare al mondo per difendere un’idea, gli esuli, i poveri, gli emarginati della speranza. Salir de uno mismo, uscire da se stessi, è una chiesa in uscita che richiama alla mente quella in esodo ereditata da Paolo VI.
Nelle sue parole c’è un nuovo sguardo sulla realtà, un mondo nuovo, mentre l’altro, il nostro, sta morendo, che siamo tutti compresi, credenti e non credenti, in questa transizione senza ritorno. Di questo Pontificato si ricorderanno i principi che hanno incastonato intere realtà diverse: Cultura dello scarto, Globalizzazione dell’indifferenza, Chiesa povera per i poveri, Chiesa in uscita, Etica globale della solidarietà. È stato il Papa delle aperture, il Papa di tutti. Proprio per questo, credo che la missione di Francesco sia stata innanzitutto quella di capire le cose del mondo, di comunicare un messaggio di speranza perché, è questo il suo pensiero, quando tutto è in crisi è facile cadere nella disperazione. Il papa dalle parole extra ecclesiale caratterizzate dall’unità di pensiero, una originalità tesa a capire e rappresentare i vari aspetti della condizione umana. Ha parlato della globalizzazione dell’indifferenza, sottolineando il problema della distanza rispetto all’altro, rispetto a Dio, provocando il pensiero sulle periferie del mondo, le periferie esistenziali. Bergoglio è stato il Papa che ha definito il ruolo delle donne nella chiesa, sostenendo che è sostanza: la chiesa è donna -scrive-, ma non è una multinazionale e ciò che è caratteristico della donna non viene sancito dal consenso delle ideologie, facendo proprio il problema sollevato dai docenti e dagli studenti dell’Università Catholique de Louvain sull’invisibilità delle donne, le grandi assenti dell’enciclica Laudato si. Francesco è stato il Papa dell’Enciclica Fratelli Tutti, capace di illuminare la realtà con un orizzonte di senso più ampio, indirizzare scelte e azioni umane: non c’è vita se non condivisa e connessa. La cultura della vicinanza come via per il futuro dell’umanità. Scaturisce, così, la scoperta della fraternità, una «dimensione essenziale dell’uomo, -scrive Francesco-il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura».
È stato il Papa della prossimità con tutti attraverso una visibilità immediata. Ma più di tutto, Francesco è stato il Papa del quale si ricorderà un’immagine: lui, solo, con un incedere claudicante, mentre attraversa la Piazza San Pietro nella solitudine della pandemia. È la Statio Orbis del 27 marzo, con il mondo chiuso nelle proprie paure a guardare quell’anziano Papa che sembra portare sulle spalle tutta la tragedia del mondo. Di questo Papa ci resterà l’insegnamento sui migranti e l’impegno per la pace. Ed ora che il suo viaggio si è concluso, non ci resta che riavvolgere il nastro. Dal Conclave uscirà un nuovo Pontefice, la roulette del designato ha avviato i suoi giri e di Francesco, di questo Papa venuto da lontano, ci resterà la sua la umiltà, quell’andare claudicante, ma deciso per le strade del mondo, incontrare quell’umanità che ha perso ogni certezza e ridare a tutti una speranza. Ricorderemo, così, questo Pontefice salito in punta di piedi alla ribalta della cristianità, il cui sogno è stato quello di riconoscere la dignità di ogni persona umana, sognare «[…] come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!».
Nato a Ovalle da madre di origine mapuche, trascorre i primi anni a Valparaiso con il nonno paterno, un anarchico andaluso innamorato di Salgari, Conrad, Melville. E saranno proprio questi scrittori che segneranno le scelte future di Lucho, come lo chiamavano gli amici, e il bisogno di ritrovarsi in una scrittura nomade capace di raccontare i sogni di quella gioventù errante incontrata per caso sul suo cammino: «Viaggiando in lungo e in largo per il mondo ho incontrato magnifici sognatori, uomini e donne che credono con testardaggine nei sogni. Li mantengono, li coltivano, li condividono, li moltiplicano. Io umilmente, a modo mio, ho fatto lo stesso». Sognava di diventare un calciatore ma l’incontro con Gloria, «la ragazza più bella del mondo», come ebbe a dire, gli fa scoprire la poesia di Garcia Lorca, Antonio Machado e Gabriela Mistral, prima donna latinoamericana a vincere il Nobel per la letteratura nel 1945. Esule dal 1977 viaggia in molti Paesi del Sud America, combattere per nuovi ideali e per i diritti dei popoli indigeni. Esordisce con un racconto segnato come pornografia dal preside del suo liceo, a Santiago del Cile. “Era il ’63. Ci innamorammo tutti della nuova professoressa di storia. La signora Camacho, una pioniera della minigonna”.
Sepulveda è stato lo strenuo difensore dei diritti umani consacrando questo pensiero nelle sue opere, in quel narrare per difendere un’idea, gli esuli, gli indios dell’Amazzonia. E gli insegnamenti degli indios, degli Shuar, presso cui Sepúlveda aveva soggiornato nei primi tempi dell’esilio, sono racchiusi nel primo romanzo scritto nel 1988, il Vecchio che leggeva romanzi d’amore, ambientato in un luogo sperduto del continente sudamericano, dove l’anziano protagonista racconta la sua storia; il romanzo deve molto all’esperienza dell’autore con i nativi. «La libertà – scrive Sepúlveda – è uno stato di grazia e si è liberi solo mentre si lotta per conquistarla»: una frase che più di ogni altra basta a riassumere la sua scrittura coraggiosa. Anche nei romanzi da Il mondo alla fine del mondo, un romanzo dedicato alla Patagonia, protagonista anche dei racconti di viaggio di “Patagonia Express”, che si chiude con l’incontro a Santiago del Cile, con lo scrittore che è stato il suo maestro, Francisco Coloane: «Mi aveva passato i suoi fantasmi, i sui personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte le latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai e i suoi vagabondi del mare. Adesso sono tutti con me e mi permettono di dire a voce alta che vivere è un magnifico esercizio», a “Le rose di Atacama”, a La frontiera scomparsa le tappe di un cileno che dalle prigioni di Pinochet ritrova la libertà, da Storie ribelli a Vivere per qualcosa, ricorre sempre questo bisogno di lottare qualcosa di utile.
La fine della storia protagonista Juan Belmonte, ex guerrigliero pronto a combattere per ogni libertà, che si ritrova a fare i conti con il proprio passato e abbandonare la quiete dell’Isola di Chiloé per riprendere a lottare perché «non si sfugge alla propria ombra. Non importa dove stiamo andando, l’ombra di ciò che abbiamo fatto e siamo stati ci perseguita con la tenacia di una maledizione». Questo bisogno di difendere i diritti umani, è presente nei racconti che uniscono in un unico afflato emotivo generazioni e mondi diversi. «Siamo esseri umani e questa condizione è determinata dal nostro essere legati alla socialità, alla possibilità di riunirci, ad essere parte di una collettività chiamata famiglia umana. Oggi c’è una tendenza ad isolare l’individuo, a fare in modo che dimentichi la sua socialità, tuttavia io mi oppongo a questo e insisto nella necessità di essere sociali». Sepulveda ha quella capacità di trasformare la vita di tutti i giorni in una realtà rocambolesca, dove la scrittura è un ritrovarsi-misurarsi con se stesso, con il mondo, con la Storia e le sue ombre. Parlare attraverso le favole che lo hanno reso immortale, raccontando la solidarietà nella “Gabbianella e il gatto”; il valore della lentezza nella storia della lumaca e quello dell’amicizia nella Storia del gatto e del topo che diventò suo amico; riconoscere i diritti fondamentali, nella Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà, fino al mare attraverso la voce di una balena bianca.