di Gerardo Di Martino
Mi sono sempre interrogato sul vero significato di questa espressione, posta dai nostri Padri costituenti, non a caso, in apertura della Carta fondamentale, nel titolo concernente l’organizzazione, la vita e l’essenza stessa della Magistratura.
Questione enorme, per ciò solo da approfondire. Oggi ancor più.
Chiariamoci subito: la formula non può certo postulare un dovere per i giudici di decidere i processi seguendo la volontà popolare. Al contrario, la giustizia non è amministrata in nome del Parlamento, né in nome del Governo.
E, dunque, se è così (e così è), avrà un limite?
Certo. I giudici sono inequivocabilmente soggetti alla Legge. Quella stessa che è espressione diretta di un potere originario appartenente al popolo: la sovranità.
Eccoci arrivati al punto.
Amministrazione della giustizia e sovranità dei cittadini possono convivere solo se amalgamate con le libertà fondamentali, di cui la prima è garante ed i secondi esercenti.
E così, lungi dal costituire un mero formalismo, l’aver stabilito che la Giustizia sia inderogabilmente amministrata “in nome del popolo italiano” mira a ricordare, a tutti, che la critica non è relegabile alle sole aule giudiziarie ed alle cancellerie (dove pure dovrebbe esplicarsi sotto forma di impugnazione).
Interessando direttamente l’intera opinione pubblica, tale “valore” si traduce in un controllo generale sulla corretta amministrazione della giustizia che viene distribuita da persone, le quali, a garanzia della fondamentale libertà di decisione, godono giustamente di ampia – e per certi versi singolare – autonomia ed indipendenza.
La censura dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati, per ciò, nell’attuale Ordinamento, corre, e deve correre, lungo due distinti binari: quello processuale e quello sociale.
Non a caso, la possibilità di essere larga e penetrante è direttamente proporzionale alla collocazione dell’uomo pubblico oggetto di dissenso: tanto più energica potrà essere, quanto più incisivi saranno i provvedimenti che egli può adottare.
Non lo sostengo io, o solo io, per carità. Le alti Corti, interne e sovranazionali, lo ripetono da decenni.
D’altro canto, la disapprovazione, soprattutto quella portata in termini aspri o con modalità di gruppo proprio di fronte ai Palazzi di Giustizia, non può essere ricondotta ad un attacco gratuito alla persona del magistrato, se non lo è. E tale non è.
Lo Stato di diritto, per vero, impegna all’osservanza dei provvedimenti giudiziari non perché essi siano giusti.
Tanto meno il rispetto risiede nell’obbligo di omaggiarli: nessuna Autorità, infatti, potrà mai compiacersi del potere di richiamare chicchessia al dovere di presumerli retti ed indiscutibili.
Per dirla con Voltaire, «Spetta non soltanto ai giureconsulti ma agli uomini tutti affermare, in coscienza, se non ritengano che lo spirito della legge in quell’occasione sia stato alterato», giacché non potremo mai sopportare che qualcuno trasformi il proprio Ufficio in un sacerdozio.
Sotto questo profilo, appare troppo semplice, ai più, ignorare che il “senso comune” rimane la base sulla quale si fonda, in ogni società democratica, l’accettazione dell’operato della magistratura, considerata nel suo complesso.
E, del resto, «c’è un’azione peggiore rispetto a quella di togliere il diritto di espressione e manifestazione al cittadino; e consiste nel togliergli la voglia di esprimersi e manifestare».