La salda intesa fra Quirinale e Palazzo Chigi ha consentito al governo di superare il primo grosso ostacolo incontrato sul suo percorso; ma il lungo braccio di ferro – dieci ore di trattative, sospensioni, conciliaboli, veti, minacce di astensione – prima di arrivare ad un accordo sulla riforma del processo penale, è uno sgradevole antipasto di quel che potrà succedere nei prossimi mesi, quando altri nodi verranno al pettine. Mario Draghi, insofferente delle liturgie imposte dalla politica romana, ha ispirato la propria strategia al suggerimento di Mattarella, che alla vigilia aveva indicato la strada dell’ascolto e della mediazione come premessa per l’assunzione di “decisioni chiare ed efficaci, rispettando gli impegni assunti”. A cose fatte, e in attesa di quel che potrà avvenire in un Parlamento chiamato a ratificare accordi presi altrove (il che non è un bene), si può ragionare sul diverso grado di soddisfazione delle forze politiche che hanno partecipato al negoziato e poi ratificato l’intesa in Consiglio dei ministri.
E’ un dato di fatto che il principio cardine della riforma Bonafede, l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, è stato cancellato. In pochi mesi, grazie ad una maggioranza parlamentare vasta quanto disomogenea, Mario Draghi sta smantellando le parti più qualificanti e criticabili della legislazione grillina. Si capisce che Giuseppe Conte non possa esserne entusiasta (“Non è la nostra riforma”), ma a suo merito può vantare l’aver ricucito in extremis la rottura fra delegazione governativa e base parlamentare registrata dopo l’approvazione della prima versione della Cartabia. Un punto a suo favore in vista della legittimazione come capo politico del Movimento. Questa volta Grillo non lo ha ostacolato, in futuro si vedrà.
Proprio la messa in soffitta del fine processo mai giustifica la valutazione positiva di Fratelli d’Italia e Italia viva; mentre la Lega, che con Giorgetti rivendica il merito della mediazione, vorrebbe ora capitalizzare il successo tattico accreditandosi come il vero punto di riferimento di Draghi nella maggioranza, con ciò insidiando il Partito democratico, che ha suggerito la gradualità dell’entrata in vigore della nuova normativa, contribuendo ad addolcire la pillola indigesta per i Cinque Stelle. Così, l’asse fra Letta e Conte sembra consolidarsi, ma l’alleanza stabile a suo tempo ipotizzata da Zingaretti non è alle viste, anzi mezzo partito non ne vuol proprio sentir parlare.
Insomma, luci ed ombre sulla riforma della giustizia. Chi ne esce sicuramente rafforzato è Mario Draghi, che conferma la sua leadership alla vigilia del semestre bianco e si pone ancora una volta come l’unica garanzia fra l’Italia e l’Europa, dalle cui decisioni dipendono le risorse necessarie per la nostra ripresa economica. La riforma della giustizia era una delle condizioni poste dalla Commissione di Bruxelles per l’assegnazione dei fondi del Recovery Plan, ma i ritardi accumulati nelle scorse settimane hanno comportato il rinvio di altri appuntamenti ugualmente indispensabili. Il braccio di ferro riprenderà in autunno.
di Guido Bossa