Più che gli equilibri della maggioranza, che reggono bene ad ogni sollecitazione ostile, le ultime fibrillazioni nei rapporti tra Lega e Cinque Stelle hanno minato i nervi del presidente del Consiglio, il quale da quando ha deciso di potenziare il suo ruolo di guida del Governo è stato ripetutamente fatto oggetto del fuoco amico dei suoi due vice, tanto impegnati a posizionarsi in prima fila nella competizione elettorale già avviata per le Europee, da non rendersi conto che le bordate che via via andavano scambiandosi rischiavano di indebolire l’”avvocato del popolo” concordemente scelto per assicurare quel cambiamento così solennemente promesso agli elettori.
Per Giuseppe Conte i motivi di soddisfazione non dovrebbero mancare. E’ stato lui, innegabilmente, a fine 2018, a condurre in porto la mediazione con la Commissione di Bruxelles evitando all’Italia l’umiliazione di una procedura d’infrazione che sarebbe stata economicamente disastrosa e politicamente mortificante; ma l’ha dovuto fare mentre Luigi Di Maio e Matteo Salvini sparavano a palle incatenate contro Macron, Juncker e tutta la burocrazia comunitaria, rischiando di mandare per aria il fragile castello di intese faticosamente costruito dal capo del governo italiano anche grazie alla benevolenza di frau Merkel. Passano poche settimane, e la disputa italo-francese riprende vigore attorno all’odissea di una nave carica di migranti in fuga dai lager libici. Più che meritoria è l’iniziativa di palazzo Chigi, tesa a far leva sull’emergenza per ottenere il sospirato concerto europeo sulla collocazione dei disperati in cerca di salvezza; ma subito viene frustrata dalle accuse dei due vice che fanno a gara nel ricoprire d’insulti il presidente francese. Quando Di Maio straccia in diretta televisiva una banconota franco/africana, denuncia la politica neocoloniale di Parigi, minaccia sanzioni Onu, e Di Battista evoca l’ipotesi di un incidente diplomatico per piegare l’arroganza transalpina, si arriva al limite della rottura: l’ambasciatrice italiana a Parigi viene convocata da una funzionaria di secondo livello per fornire spiegazioni, i giornali (non tutti, per la verità) riferiscono di un Conte irritatissimo con il suo numero due, e non vengono smentiti, il ministro Moavero Milanesi si fa in quattro per calmare le acque sempre più agitate; ma intanto il governo rinvia sine die il doveroso chiarimento sulle linee di politica estera, consapevole del fatto che il dibattito parlamentare richiesto dalle opposizioni potrebbe scatenare la competizione fra i gialloverdi con conseguenze imprevedibili sul fronte internazionale e anche interno.
In questo quadro, la dichiarazione conciliante di Giuseppe Conte, il quale nega di voler “mettere in discussione la nostra storica amicizia con la Francia, né tantomeno con il popolo francese”, rivela solo un forte imbarazzo, al limite della crisi di nervi. Ma poi è lo stesso premier a cacciarsi nei guai: in una lunga conversazione col “Corriere della Sera” piena di autoelogi del tipo: avete visto la mia foto con la Merkel, sapete che a Davos ero tanto corteggiato dai vip di mezzo mondo che non avevo tempo di andare in bagno, si lascia sfuggire una freccia avvelenata proprio contro la cancelliera, alla quale ricorda che la sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale non le aprirebbe dopo settant’anni le porte del Consiglio di sicurezza.
Così la frittata è fatta, ma rischia di essere indigesta per tutti. In primo luogo per l’”avvocato del popolo” che, privo com’è di un partito col quale presentarsi alle europee, non può neppure sperare di riscuotere il consenso elettorale che i gialloverdi contano di mettere insieme aizzando gli italiani contro i perfidi cugini d’Oltralpe.
di Guido Bossa