E’ nell’incontro tra cultura classica e modernità la chiave per comprendere la forza di una rivista di cultura classica come Humanitas Nova, diretta da Aldo Marandino, edita da Delta 3. Un esempio arriva dall’editoriale di Alberto Camerotto che si fa riflessione sul valore della libertà oggi “Se la parrhesia è un valore – scrive Camerotto – non è detto che sia sempre cosa positiva, giusta, bella, opportuna. Bisogna pensarci. Noi lo vediamo dalle aberrazioni dei Social. La difficoltà nasce dall’abuso, che genera immediatamente il sospetto, il biasimo, l’odio. O anche dall’ambiguità delle cose. Un po’ complicato anche questo. I problemi si addensano”. Camerotto sottolinea con forza il potere eversivo della parrhesia che “può e deve violare le convenzioni, le idee collettive condivise da tutti, può mettere in crisi i pensieri e le azioni di chiunque. Proprio per questo può essere una formidabile risorsa. È quello che succede con le domande di Socrate o con le provocazioni, i paradossi di Diogene. Allora, possiamo immaginare una buona parrhesia, che sarà fatta di tensione, attenzione, strategia della parola. È azione retorica che sa valutare le utilità e gli effetti. Parrhesia è anche parlare a caso, sproloquio, perché la parola comprende qualsiasi manifestazione del pensiero e dell’espressione. Ma, come dice Democrito, il kairos è il criterio fondamentale per la valutazione della parrhesia”. Un riferimento è a Luciano di Samosata in cui la libertà di parola si fa programma intellettuale, letterario e “Diventa codice essenziale di tutti gli scritti satirici”.
“Non a caso l’alias più impressionante dell’autore – scrive Camerotto – si chiama Parrhesiades. Solo Menippo, tra gli inferi e il cielo, gli sta alla pari o arriva addirittura più lontano. La libertà di parola entra anche negli eventi della vita, anche quella di Luciano, naturalmente con tutti i problemi che questo comporta. E, necessariamente, con le ambiguità e i punti di vista che sono quelli della vita e soprattutto della fictio letteraria. Certo, siamo nel II secolo d.C. e i riferimenti utili per questa parola e per questa idea sono molto più antichi. Le parole sono quelle di un outsider della cultura greco-romana, forse nel tempo più splendido per la Paideia antica, sempre con molte ombre e problemi, all’epoca dell’impero e del potere degli Antonini”. Fino a diventare anaideia (“sfontatezza”), se necessario tanto che i filosofi cinici ne faranno uno slogan, una bandiera, sfidando i diktat del potere e l’opinione collettiva proprio come accade con Socratee Diogene
Costante il richiamo al tempo di oggi in cui “la parola libera per non essere soggetta a querela deve rispettare tre principi: La parrhesia deve rispettare il vero, nella maniera più chiara ed evidente possibile. Non semplice, perché la verità non è sempre cosi palese, o vi possono essere ambiguità o prospettive non così chiare. La parrhesia non deve lasciarsi andare, ma deve rispettare un principio di continentia, deve evitare l’eccesso. La parrhesia deve rispettare il principio della utilità comune, perché questa è la sua natura, la parola libera è un contributo al bene di tutti”
Di notevole interesse anche il contributo di Aldo Marandino che si sofferma sul rapporto tra le donne e la guerra in Euripide. Pone l’accento su un’attenta analisi filologica di alcuni passi delle tragedie euripidee che hanno al centro la donna e il suo dolore (l’Ecuba in particolare e Le Troiane), a partire dalla capacità del cuore femminile, più di quello maschile, di gridare con tutta la forza della passione e dell’amore, fuori da ogni canone e da ogni ambiguo sofisma l’orrore di ogni guerra.
“Insanabile – scrive Marandino – è la lacerazione di una madre, di una sposa, di una sorella o di una figlia, insostenibile la loro sofferenza, irrefrenabili la loro maledizione e la loro vendetta”, In questo modo il teatro tragico greco – Marandino sceglie di partire dal bellissimo allestimento dell’Agamennone di Eschilo che vide protagonista Irene Papas – filiera di tutti tempi degli uomini, devastati sempre dalla brama di potere che genera la guerra, e sempre sopravvissuti grazie allo stesso dolore, all’incrollabile volontà di espungerlo, volta per volta, dal proprio grembo; è stato restituito al suo autentico ruolo di provocatore delle grandi domande sull’uomo, dimidiato tra la costrizione del razionale e il fascino misterioso e spesso agghiacciante dell’irrazionale”.
Per ribadire come “grazie all’Ecuba che attraversa i millenni, e si ritrova oggi negli occhi e nelle mani delle donne ucraine, afgane, irachene, siriane, palestinesi, ebree, statunitensi, nordafricane, sudamericane, di tutte le donne che nella guerra patiscono in vario modo ma con la stessa intensità, anche se non sono madri, gli strappi violenti alla maternità, e nel pianto sciolgono gli oracoli dell’eterna Pizia”. Centrale risulta in tutte le opere classiche la contrapposizione ideologica tra la maternità, che genera la vita, e la guerra, che la vita distrugge. Ne è un esempio il pianto di Ecuba che ha perso tutto e lamenta la perdita dei figli maschi, l’assassinio di Priamo, la città conquistata e dunque il destino delle figlie che non sa se rivedrà “Ma non è appunto ogni guerra un olocausto? – si chiede Marandino – Contro il quale vanamente combatte il cuore di ogni madre, perché è come se nel grembo di ognuna venissero soffocate una cento mille vite, tutte quelle che hanno difeso e generato”.
A sottolineare il messaggio politico della Lisistrata di Aristofane, il suo appello forte alla pace è Roberto Spataro. Chiaro il riferimento alla guerra peloponnesiaca che viveva in quel tempo Atene e entrava nella sua fase finale, destinata a segnare il crollo della civiltà ateniese “ai danni devastanti della guerra tra i popoli occorre reagire con lungimiranza e coraggio per ristabilire la pace internazionale e la tranquillità dell’ordine sociale, ieri come oggi”.
“Ed ecco – scrive Spataro – che attraverso la trovata assolutamente geniale dello sciopero sessuale Aristofane mette in chiaro che, come l’astensione dei rapporti coniugali è del tutto innaturale e finisce per condannare una società all’autodistruzione, così la guerra senza fine non è conforme a ragione ed è foriera di danni irreparabili per la convivenza dei popoli. Lisistrata affronta dunque il tema della pace, ricorrente nel teatro di Aristofane, con un taglio profondamente riflessivo, più profondo che in altre commedie che avevano trattato lo stesso argomento. La guerra non è solo l’esito sfortunato di politiche belliciste promosse da politici spregiudicati, non è solo impoverimento economico e culturale: essa è un’azione che si pone al di fuori dell’ordine naturale delle cose”.
Non c’è altra strada che giungere a un compromesso con i nemici tradizionali, un’esigenza che si spiega anche con i i vincoli storici e religiosi che legavano le varie città greche in una reciproca interdipendenza e una solidarietà più grandi di ogni dissapore. Ecco perchè Spataro definie l’appello finale di Lisistrata ad Ateniesi e Spartani come un vero manifesto per la pace, evocando ragioni che conservano una forte attualità dall’interdipendenza tra i popoli che, per affrontare sfide comuni, hanno sostenuto l’uno la causa dell’altro alla centralità della pace nelle religioni, come ribadito più volte anche dai continui appelli di Papa Francesco
Spataro sottolinea come anche la scelta della parola “riconciliazione” non sia casuale, suggerisce dunque che ci sarà pace se mutano non tanto i patti, frutto di negoziazioni e compromessi, ma se cambiano le disposizioni interiori dei belligeranti. Poichè la pace si costruisce, sembra dire Lisistrata, nel cuore e nella mente.
Un numero prezioso, quello di Humanitas Nova, che continua con i riferimenti a modelli greci e latini nel De Architectura di Vitruvio, con Mario Martin, a partire dall’excursus geo-climatico antropologico nel quale si pone l’accento sulla posizione geografica mediana della Grecia che permette di godere nel modo perfettamente equilibrato delle caratteristiche attribuite ai popoli del nord e del sud.
Molto bella anche l’intervista al procuratore Domenico Airoma che si sofferma sul suo rapporto con l’antico
“Fondamentale è, per la mia professione – sottolinea Airoma – è non perdere di vista che il fine della legge è l’uomo. Nessun processo si celebra per il gusto di celebrarlo. Al centro vi sono degli uomini, delle persone, le loro storie, i loro drammi Questo, e solo questo, consente al giudice di non trasformarsi in un tecnocrate”. E ricorda il suo incontro con la cultura classica “Ero da poco entrato in magistratura e mi trovavo a gestire un potere che avvertivo enorme, poiché i provvedimenti che adottavo potevano incidere sulla libertà e la stessa vita delle persone. Mi sono allora chiesto: in che modo – pur necessariamente dovendo rimanere solo nel mio lavoro e non dovendo ricercare il consenso – posso fare in modo che il mio sforzo di rendere giustizia sia apprezzato per quel che è, ovvero uno sforzo teso alla ricerca imparziale della verità? Ebbene, mi venne in soccorso una lezione del mio insegnante di greco del liceo, a proposito della distinzione fra auctoritas e imperium. Da allora quel che anima il mio quotidiano impegno è la tensione costante verso un consenso fondato sull’“autorevolezza”, prima ancora che sul “potere”. Chi è chiamato a rendere giustizia è consapevole che vi sarà sempre una parte destinata a soccombere: fare in modo che chi “perde” capisca le ragioni della soccombenza e il “dramma” del decidere, è la premessa indispensabile perché il giudice venga rispettato per il modo in cui “è” giudice, prima ancora che per il modo in cui “fa” il giudice”.
A completare il numero i contributi di Flavio Castaldo, Paolo D’Andrea, Michele Campisi, Rainere Weissengruber, Lidia Pizzo, Andrea Del Ponte, Giulia Perfetto e Giulio Audeno che consegna un bel ricordo di Antonio La Penna