Sarà pur vero – ed è vero – che nei tribunali non si scrive la Storia ma si accertano reati, si puniscono i colpevoli e si mandano assolti gli innocenti; ma è altrettanto vero che sarebbero più credibili quanti lo scrivono da ieri sui giornali se non avessero passato gli ultimi anni a raccontare le vicende di questo Paese non sulla base di sentenze ma di istruttorie, teoremi, tesi accusatorie, richiese di rinvii a giudizio, requisitorie, interviste, talk show, instant book: un mare di carte con un unico filo conduttore, leggere la più recente Storia italiana come il frutto di una convergenza di interessi fra la mafia e i poteri dello Stato più o meno corrotti e collusi o, nella migliore delle ipotesi, timidi di fronte alla violenza del progetto criminale che si era manifestato con delitti eccellenti di poliziotti, magistrati, amministratori pubblici, uomini delle istituzioni. Del resto, lo stesso titolo affibbiato al processo-monstre di questa pluridecennale narrazione – “Trattativa”, appunto – a che cosa alludeva se non ad un vergognoso patteggiamento tra criminali da una parte e carabinieri (esecutori) e politici (mandanti) volto ad assicurare ai primi l’impunità e ai secondi la pelle e/o il mantenimento di status e privilegi ad esso connessi, con gli uomini in divisa quali mediatori del patto scellerato? E si ha un bel dire, oggi, che la trattativa, anche se fosse stata dimostrata, non sarebbe un reato; ma allora per quale motivo il processo che ieri è arrivato al giudizio di appello, assolutorio per gli uomini dello Stato, fu rubricato con questo epiteto, inteso nella versione più infamante? Ora, è pur vero che all’accertamento completo della verità mancano ancora tasselli importanti quali la lettura delle motivazioni e il definitivo verdetto della Cassazione, ma mentre per quest’ultimo fa fede la sentenza passata in giudicato che ha mandato assolto l’ex ministro Calogero Mannino, per quanto riguarda la ”trattativa” anche il dispositivo letto in aula giovedì pomeriggio non lascia dubbi sull’orientamento della Corte: dice cioè che se è vero che i capi della mafia ricorsero alle stragi, in Sicilia e nel Continente, per minacciare e intimidire lo Stato (e per questo sono stati condannati), è altrettanto certo che lo Stato non si piegò al ricatto: gli investigatori, su mandato dell’autorità giudiziaria di allora, cercarono contatti con chi poteva metterli sulle tracce dei criminali, che infatti furono poi arrestati. Anche il processo di primo grado ha dimostrato che il famoso “papello” che conteneva le richieste della mafia era un falso e che il principale testimone dell’accusa, Massimo Ciancimino, era un millantatore. Ora la sentenza d’appello rimette le cose a posto, rende l’onore ai carabinieri, scagiona i “mandanti” politici. Ma i danni prodotti dal processo mediatico che ha accompagnato l’intera vicenda restano sul terreno, e inquinano la giustizia, il giornalismo e il costume italiano. Perché, come ha detto Giovanni Fiandaca, insigne giurista palermitano, inascoltato maestro di alcuni Pm del processo “trattativa”, “compito del processo penale non può essere quello di processare la storia e la politica. E soprattutto non è seriamente credibile l’assimilazione tra storia italiana e storia criminale”.
di Guido Bossa