La guerra in Ucraina ha cambiato l’agenda politica mondiale e naturalmente l’emergenza internazionale è al centro anche della politica italiana. I problemi del governo restano, ma confinati dentro una cornice diversa perché, comunque si concluda questa immane tragedia, è chiaro a tutti che non si può tornare agli schemi del passato. Occorre ridisegnare nuovi rapporti, anche se già adesso si intravede un cambio di passo e le polemiche innescate dai Cinque Stelle all’interno del governo ne sono la prova. Conte è contrario all’aumento delle spese militari, non intende mettere in discussione l’alleanza atlantica ma ritiene che ci siano altre priorità. Come è già accaduto altre volte, ad esempio sulla giustizia, prova a mettere in discussione l’equilibrio nato un anno fa intorno alla figura di Mario Draghi. Il feeling tra il premier attuale e il suo predecessore a Palazzo Chigi non è mai scattato. Come nota Francesco Bei “forse era inevitabile che le polemiche sulla guerra in Ucraina, tenute sotto il tappeto durante le settimane più atroci dell’avanzata russa, uscissero fuori proprio ora ai primi timidi segnali di una schiarita diplomatica. Quello che è accaduto è dunque la naturale conseguenza di un problema mai affrontato fino in fondo che si ripropone nella sua drammatica attualità: il tema dell’identità irrisolta dei Cinque Stelle. E’ questo il vero elefante nella stanza che nessuno vuole nominare”. E poi c’è qualcosa di più profondo nel nostro sistema che resta troppo fragile e che ciclicamente si ripresenta come è successo negli ultimi trent’anni. Nel nostro Paese c’è un periodico susseguirsi di soluzioni esterne al sistema dei partiti. Crisi politiche risolte dal Quirinale chiamando a Palazzo Chigi, in epoche diverse, personalità come Ciampi, Monti e Draghi. La responsabilità di questa anomalia è da ricercare nel basso credito di partiti e leader impegnati più a catturare il consenso dell’opinione pubblica con promesse effimere che affrontare i gravi problemi economici e sociali del Paese. In questo quadro ogni volta che un tecnico si è insediato a Palazzo Chigi, tutte le forze politiche hanno immaginato di cogliere quell’occasione per riformare sé stessi ristabilendo un rapporto ormai logoro con l’elettorato, però non ci sono mai riusciti. Nel ’93 il governo Ciampi ereditò la crisi dei partiti in piena Tangentopoli, dopo quell’esperimento arrivò Berlusconi che impose la forza della soluzione personalistica, la semplificazione rispetto alla complessità. Con Monti si poteva riscrivere la pagina del dopo Berlusconi ed invece sia la “discesa in campo” dello stesso premier che l’avvento del Movimento Cinque Stelle, che ha scardinato il bipolarismo, hanno affossato quella speranza. Il sistema si è avvitato ancora di più e questa legislatura, con tre diverse maggioranze, ne è la riprova. L’Italia è un paese unico nel mondo occidentale. In Germania, ad esempio, gli esecutivi di coalizione si formano intorno al partito che ha vinto le elezioni o in Inghilterra si alternano al governo i leader delle formazioni principali: conservatori o laburisti. In Spagna si è continuato a votare finché dalle urne non è scaturita una possibile maggioranza. Da noi dopo gli esperimenti Ciampi e Monti, è adesso il tempo di guardare a quello che potrebbe accadere dopo Draghi. Tocca ai partiti decidere del loro futuro visto che l’attuale inquilino di Palazzo Chigi, a differenza di Monti, non intende far parte del teatrino ad ogni costo. Il suo nome è evocato da quanti sperano di proseguire quest’esperienza che ci tutela in Europa e ci offre l’opportunità di completare il Pnrr. Le emergenze in futuro non mancheranno, ma sarebbe ora che i partiti ritornino a recitare un ruolo da protagonisti abbandonando sia la comoda poltrona dei comprimari che lo sport, troppo praticato, di piantare bandierine elettorali.
di Andrea Covotta