di Paolo Saggese – L’anniversario della “Festa della Liberazione” dal nazifascismo, sancito solennemente dalla data del 25 aprile 1945, giorno in cui il “Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia”, a Milano, proclamò l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai tedeschi e dai repubblichini, è uno spartiacque della nostra storia nazionale, della civiltà umana, che ormai da ottant’anni si celebra solennemente. È la ribellione contro quella vergogna della storia che fu il nazifascismo.
CALAMANDREI
Il significato più profondo di questo giorno può esserci dato da un breve e lucido discorso, che Piero Calamandrei tenne proprio a Milano dieci anni dopo. In questo memorabile intervento, l’insigne giurista e uomo politico celebrò la nostra Costituzione, l’articolo 1, l’articolo 3, l’articolo 34, ma mostrò che la Costituzione stessa è una “polemica” contro il passato ma anche contro il presente, perché quei “fogli di carta” rappresentano non tanto il nostro “essere”, ma il nostro “dover essere”, non quello che siamo, ma ancora di più quello che dobbiamo diventare:
“Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana», riconosce con questo che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento socialeattuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire”.
Quei “fogli”, che non sono semplici fogli, ma raccontano di democrazia, di solidarietà, di diritti, di istruzione, di futuro, di pace, di lavoro, di eguaglianza reale, di tolleranza, di giustizia, che ci richiamano al “bene comune” attraverso l’apologo dei contadini, che si disinteressano del bastimento che sta per affondare e che non è il loro, ma su cui loro viaggiano e nel quale moriranno, sono la nostra vita, presente e futura, sono la garanzia, che il nostro futuro democratico possa ancora essere reale.
La Costituzione non è “carta morta”, sono i valori nei quali crediamo e che sono diventati tali grazie al sacrificio di tanti giovani partigiani:
“Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro a ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Per il Sud il vero 25 aprile era avvenuto molto prima, era avvenuto quasi due anni prima, perché la liberazione dal nazifascismo e la ribellione al regime mussoliniano iniziarono nel luglio del 1943 e si protrassero sino all’autunno dello stesso anno. Il 25 aprile 1945 il Mezzogiorno d’Italia era libero da tempo.
La “Festa della Liberazione” deve diventare oggi un momento per confrontarci con la nostra storia, con quella “anima nera” sopita, che fa parte della storia del popolo italiano e che può riproporsi in forme diverse all’improvviso. Esiste un’anima fascista nel nostro Paese, è chiaro, anche se oggi dovremmo avere gli anticorpi istituzionali, politici e culturali per difenderci e “guarire”. Esiste “un’anima nera” nel mondo, che sembra sovrastare ormai e minacciare le moderne democrazie.
Enzo Bonaventura, nel suo “Psicanalisi” (edito nel 1948), così descriveva quel mondo, quell’epoca, conclusasi con la catastrofe della Seconda guerra mondiale: “Gli istinti brutali dell’uomo, attutiti e assopiti da secoli di civiltà e di cultura, ruppero ogni freno e si manifestarono con una crudezza senza esempio; ogni infamia fu commessa, contro individui e contro masse; all’infuori degli eserciti combattenti, caddero a milioni donne, vecchi e fanciulli, inermi, moltissimi uccisi per la loro fede religiosa e per le loro idee politiche, vittime dell’odio e dell’intolleranza”.
FEDERICO BIONDI
Venendo alla nostra piccola Patria, occorre rileggere le pagine iniziali di un volume più volte richiamato alla memoria dei nostri lettori, il libro di Federico Biondi “Andata e ritorno” (Elio Sellino editore, 2000).
Quest’opera, che segna quasi lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo Millennio, ha rappresentato un ripensamento in senso locale e globale del “secolo breve”, ma ci riporta anche quella giusta dimensione intima, che non è cronaca semplicemente, ma è letteratura. Si ritorna con questo libro a quella forma di storiografia, che era “opus oratorium maxime”.
Nel primo Capitolo Federico Biondi riflette sul suo rapporto con il fascismo, che era stato, negli anni della fanciullezza e prima adolescenza, di supina accettazione del regime, sebbene in famiglia il padre Luigi tendesse a mitigare con il sarcasmo l’entusiasmo del giovane Federico. Tutti erano fascisti, preda di una retorica vuota, che proponeva l’Italia come una super potenza tesa a ridare vita all’Impero romano.
Nei momenti finali del fascismo, concepito finalmente un suo rudimentale antifascismo, alla fine di luglio del 1943, quel povero “studentello” ebbe l’ardire di concepire il primo atto rivoluzionario di Avellino. Quando la radio annunciò la caduta di Mussolini (25 luglio), quella sera stessa Federico aveva preparato centinaia di striscioline con la carta copiativa inneggianti la libertà e la caduta inevitabile del fascismo. Si precipitò nello “Stretto” e furtivamente faceva cadere a terra quei suoi messaggi rivoluzionari. I passanti li leggevano incuriositi, ma non li ributtavano a terra. Le scene di giubilo per la caduta del fascismo ci furono il giorno dopo. Ma quel giovane studente, in una sera di luglio del ’43, riuscì ad insegnare agli avellinesi il gusto e la gioia della libertà. Poi venne l’8 settembre, con la firma dell’Armistizio di Cassibile, che sanciva la resa incondizionata del Regno d’Italia, l’invasione della penisola da parte delle truppe tedesche e l’inizio della guerra di liberazione dal nazifascismo.
Più di ottant’anni fa avevano inizio, per l’Irpinia e per l’Italia, i momenti più duri e tragici del Secondo conflitto mondiale. Di lì a poco, a partire dal 14 settembre del 1943 sulla provincia e su Avellino piovvero tonnellate di bombe, che causarono migliaia di morti. Quelle bombe trovarono i paesi e la città inermi, abbandonate dalle istituzioni, incapaci di affrontare l’immane tragedia.
GUIDO DORSO
Lucido interprete di quei momenti fu, come al solito, Guido Dorso, che più volte ha dedicato memorie e riflessioni a quegli anni di guerra e quindi ai protagonisti di quegli eventi.
Qui vorrei riprendere alcune delle pagine più interessanti e meno note del grande meridionalista, in cui, rievocando a distanza di due anni l’8 settembre, compie un’analisi attenta della situazione e si concentra anche sul comportamento di Vittorio Emanuele III e su quello dei Presidenti degli Stati Uniti (si tratta di quanto Dorso ha scritto in due interventi, il primo edito con il titolo appunto di “8 settembre 1943”, il secondo con il titolo “The Stars and Stripes” su “L’Azione”, rispettivamente del 9 e dell’11 settembre 1945, poi ripubblicati dal Centro Dorso in un prezioso volume curato da Francesco Saverio Festa nel 1994). Nel primo articolo, vivida, drammatica, è la rievocazione della notizia dell’armistizio, che suscitò giubilo ed esaltazioni generali, e che a molti apparve come il “nostro” 25 aprile, il 25 aprile del Sud. Ma a questa esaltazione collettiva non partecipò l’attento intellettuale, che comprese subito come allora, per Avellino e per l’Italia, cominciasse la vera guerra. Dorso non partecipò al giubilo universale, e alla moglie che festeggiava rispose: “ora, per noi, comincia la guerra”.
In effetti, già alle due di notte del 9 settembre si registrarono i primi scontri tra soldati italiani e tedeschi, e poi la guerra arrivò e con mano pesante devastò l’Irpinia e la città.
Ma prima del bombardamento del 14 settembre e dei giorni successivi, si potè assistere già a scene che sarebbero rimaste impresse nella memoria collettiva: i saccheggi della popolazione, sobillata dai soldati tedeschi, che filmavano la scena, i depositi militari distrutti o razziati, e poi l’inferno: “Chi misurò più il tempo? Sembrava interminabile! Eppure questa fase durò soltanto 6 giorni. Infine, in una afosa mattina di settembre, la città sprofondò sotto il dominio dell’aviazione tattica americana ed i Lightning scesero in picchiata sui tetti a bombardare e mitragliare. Tra le morti e gli incendi ci disperdemmo sulle colline e sui monti, a vivere la vita delle bestie”.
Così iniziò e finì il nostro 25 aprile.
Poi arrivarono gli americani, con le sigarette e la cioccolata, i gerarchi gettarono le camicie nere, divennero antifascisti, la storia si ridusse in farsa.