La crisi dell’ex Ilva di Taranto si aggiunge a quella ormai incancrenita dell’Alitalia, per la quale non si riesce a trovare un compratore, e a quella più recente della Whirlpool che un padrone ce l’aveva ma ora se ne vuole andare azzerando un altro presidio industriale nel Mezzogiorno. Quattro mesi fa, all’inizio di luglio, il quotidiano della Confindustria aveva contato ben 158 tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo economico, venti in più da gennaio: cifre non ufficiali perché, scriveva “Il Sole”, “perfino il bilancio è diventato un piccolo rebus”. Allora i lavoratori coinvolti nelle vertenze erano oltre duecentomila, ai quali oggi si aggiungono i diecimila di Taranto che diventano il doppio con l’indotto, dove sono già partite le richieste di cassa integrazione. Ma le nude cifre non misurano pienamente il salto di qualità, in negativo, di queste settimane: la crisi dell’acciaio, in un paese come l’Italia povero di materie prime, e in un sistema economico basato sull’industria di trasformazione, significa uscire dalla “serie a” e avviarsi sulla strada di un declino irreversibile.
Un balzo indietro di cinquant’anni, e non è un caso se fra le proposte avanzate per risolvere la grana Ilva c’è anche l’intervento massiccio dello Stato che fu, allora, il motore del decollo economico del Paese puntando sulle grandi infrastrutture e sull’industria di base. Dunque si torna all’Italsider? E i nostri partner europei, che sono anche nostri concorrenti, come giudicherebbero l’ingresso della mano pubblica in un settore strategico?
Presto per parlarne, probabilmente. Per il momento registriamo una certa benevolenza delle autorità di Bruxelles verso i segnali preoccupanti in arrivo circa le previsioni economiche italiane: bassa crescita, la più bassa d’Europa, debito in aumento, mercato del lavoro “in deterioramento” con prospettive negative. Ma la sospensione di giudizio dipende da considerazioni politiche più che dalla fiducia nel rapido superamento di una congiuntura negativa, che non si vede. Il commissario francese Moscovici, che negli ultimi anni è stato l’attento controllore dei bilanci italiani e che ancora svolge questo ruolo in regime di “prororgatio” perché la nuova Commissione stenta a decollare, lo ha detto chiaramente: il governo giallo-rosso è più credibile di quello giallo-verde che c’era prima, e quindi la Commissione chiude un occhio, anche perché ha le sue gatte da pelare in casa propria.
Fino a quando? Anche l’apertura di credito di Bruxelles avrà un limite, segnato dalla capacità del governo italiano di superare le difficoltà meritandosi la fiducia ottenuta. Ma per il momento più che affrontare e risolvere, l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte sembra galleggiare sui problemi, litigando sulle responsabilità politiche della crisi industriale e barcamenandosi a fatica tra le baruffe dei partiti che compongono la nuova maggioranza, dove settori consistenti del Pd e dei Cinque Stelle accusano i rispettivi capi di cedimento alle pretese dell’altro.
di Guido Bossa