Si è molto parlato durante queste ultime settimane della fiction, trasmessa dalla Rai, sui 55 giorni del rapimento di Aldo Moro raccontati da Marco Bellocchio. Una serie Tv che ci ha svelato ancora una volta la ferocia delle Brigate Rosse e una tragedia che ancora oggi è piena di ombre. Luigi Zanda, che allora era il portavoce del ministro dell’Interno Cossiga, in una recente intervista ha detto che non si saprà mai davvero tutta la verità sul caso Moro finché non saranno accessibili gli archivi delle grandi potenze. L’omicidio Moro è del 1978, il 12 dicembre del 1969 la strage di Piazza Fontana a Milano a parlarne è lo stesso statista democristiano nel suo memoriale (un insieme di testi scritti durante la sua prigionia). Moro scrive che “personalmente ed intuitivamente,non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (e manifestare) almeno come solida ipotesi chequesti ed altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra ed avesserol’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (tale è proprio lacaratteristica della reazione di destra), allo scopo dibloccare certi sviluppi politici che sierano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere”. Moro rivela questi fatti durante la prigionia ma noi oggi sappiamo che la strage compiuta alla Banca dell’Agricoltura di Milano ha dato l’avvio al periodo della cosiddetta “strategia della tensione” che ha visto concretizzarsi numerosi attentati. Le lunghe e innumerevoli indagini hanno rivelato che quella di Piazza Fontana è stata una strage compiuta da terroristi di estrema destra, probabilmente collegati a settori deviati degli apparati di sicurezza dello Stato con complicità e legami internazionali. Il Presidente della Repubblica Mattarella, a cinquant’anni dalla strage, disse: c’è stato un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana, a vent’anni dall’entrata in vigore della sua Costituzione. Disegno che venne sconfitto. Un’affermazione indubbiamente vera ma quella strage segna anche la degenerazione dello scontro politico che caratterizzerà tutti gli anni Settanta. Comincia, insomma, una sorta di sfiducia verso le istituzioni perché una parte di essa era coinvolta e le conseguenze sono state catastrofiche fino a determinare quella “mancata affezione verso lo Stato” di cui parlò all’epoca Leonardo Sciascia. Certamente l’impatto della strage si innesta sull’impegno politico delle giovani generazioni, nate nell’immediato dopoguerra, che sfocia nelle contestazioni del dopo ‘68. Un clima nuovo che forma il clima culturale e sociale di quel periodo. Il politico che per primo intuisce la portata di quel che sta accadendo è proprio Moro che cerca di includere nella sfera della politica le varie associazioni e i tanti movimenti che dalla società emergono e chiedono spazio. In questa chiave è cruciale il discorso che pronuncia al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana il 21 novembre del ’68: “Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità”. Parole che lette oggi sono di estrema attualità visto che sollevano grandi questioni ancora irrisolte e anticipano le trasformazioni di un mondo inquieto nel quale siamo ancora immersi.
di Andrea Covotta