E’ passata piuttosto inosservata un’affermazione di Matteo Renzi, martedì scorso a “Carta Bianca”, che pure aveva il sapore della rinuncia: “Chi farà il premier non lo decide il Pd se non arriva al 40%”. Chi se n’è accorto, l’ha letta come l’annuncio di un passo indietro rispetto ad una scontata prenotazione per la guida del futuro governo, tanto più rilevante nel momento in cui le autocandidature si moltiplicano. Eppure per il segretario del Pd non si tratta di una prima volta: già in febbraio, in un’intervista al “Corriere della Sera”, lo aveva accennato.
“La prossima volta potrei non essere io…magari potrebbe toccare ancora a Paolo Gentiloni o a Graziano Delrio”. Ma allora Renzi guardava soprattutto al congresso del Pd e alle primarie, che a fine aprile lo avrebbero confermato alla segreteria con una schiacciante maggioranza; il fatto che lo ripeta oggi, quando le elezioni sono più vicine e i leader o presunti tali si avvicinano ai blocchi di partenza, dice che qualcosa è cambiato nella sua testa, ben oltre le riflessioni suggeritegli dalla “fase zen” che sta attraversando. “Se ci sono le condizioni uno fa il premier, se non ci sono le condizioni uno dà una mano”, ha aggiunto; il che significa che il segretario ha cominciato a muoversi con maggior realismo di altri nello scenario di questa fine legislatura, che si proietterà in quella successiva. Uno scenario caratterizzato da maggioranze intercambiabili e governi deboli, alla mercé di gruppi parlamentari mobili, minuscoli ma irrequieti. Uno scenario nel quale avrà possibilità di navigare con successo un mediatore esperto e duttile, mentre un nocchiero decisionista e magari prepotente rischierebbe di affondare con tutta la nave. Siamo insomma di fronte all’onesto riconoscimento dei cambiamenti introdotti nel sistema dall’esito del referendum istituzionale e dalla contemporanea (e in qualche modo conseguente) bocciatura dell’Italicum da parte della Corte Costituzionale. Mentre Berlusconi, Di Maio, Salvini, Meloni e tutti i loro supporter si comportano come se il sistema fosse ancora maggioritario, e quindi si sbracciano a dire che la guida del governo toccherà a chi fra di loro prenderà alle elezioni un voto più degli altri, Renzi ammette, quasi con umiltà, che il prossimo governo dovrà essere un esecutivo di coalizione la cui guida sarà affidata non dagli elettori ma al candidato scelto dalla coalizione che si formerà dopo il voto. Realismo veramente paradossale da parte del leader che più degli altri aveva interpretato con qualche successo la politica del maggioritario, ed ora sembra pronto ad adattarsi, sia pur di malavoglia, alla legge del proporzionale. Del resto, fra i paradossi con cui avremo ancora a che fare c’è anche quello per cui, grazie alla bocciatura della riforma del Senato, l’Italia manterrà l’autolesionistico privilegio di avere due Camere legislative perfettamente paritarie per compiti e responsabilità, elette da due corpi elettorali diversi, discriminati in base all’età (gli elettori per la Camera sono 4 milioni in più di quelli per il Senato). Il che, unitamente alla indeterminatezza del sistema di voto, renderà tutto ancor più difficile.
di Guido Bossa edito dal Quotidiano del Sud