Di Franco Fiordellisi, già segretario generale CGIL provinciale Avellino
Come ogni fine anno, è tempo di bilanci. Ma i bilanci, per essere utili, devono essere veri e puntuali, capaci di orientare scelte, progetti e politiche per l’anno che viene. Eppure il dibattito pubblico su dossier e report fondamentali appare sempre più polarizzato, mentre in Parlamento si discute una legge di bilancio povera di visione industriale e sociale, incapace di affrontare i nodi strutturali del Paese.
Nel frattempo, il futuro viene ipotecato pesantemente: aumento della spesa militare, nuovo indebitamento per il riarmo, compressione degli interventi su sanità, welfare, enti locali, cultura, diritto all’abitare e investimenti nelle filiere industriali innovative e sostenibili. Il tutto dentro un cambio di rotta dell’Unione europea che non offre una prospettiva di sviluppo e che non può essere accettato come un fatto inevitabile.
È in questo quadro che il PNRR entra nella sua fase finale. Entro il 2026 il Piano dovrà essere completato e rendicontato; le risorse non spese non verranno riconosciute dall’Unione europea e una parte rilevante dei fondi, essendo prestiti, dovrà comunque essere restituita. Questo dato, troppo spesso rimosso dal dibattito pubblico, è politicamente decisivo: rischiamo di aumentare il debito senza ridurre le disuguaglianze.
Il PNRR non è uno strumento neutrale. In un Paese attraversato da divari territoriali profondi, produce effetti differenti a seconda dei territori. Dove le amministrazioni sono forti, strutturate e dotate di competenze, la spesa avanza. Dove i Comuni sono piccoli, sottodimensionati, privi di personale tecnico e amministrativo adeguato, la spesa rallenta o si blocca. Non per incapacità delle comunità, ma per una debolezza strutturale dello Stato che dura da decenni.
Questa criticità era nota ben prima del PNRR. Da anni dirigenti pubblici e operatori dei fondi europei segnalano che il vero collo di bottiglia non sono le norme, ma la capacità amministrativa. Per oltre un decennio la Pubblica amministrazione ha gestito i fondi strutturali con una capacità di spesa limitata; improvvisamente le si è chiesto di governare investimenti per centinaia di miliardi senza un adeguato investimento nel capitale umano, nelle competenze tecniche e nell’organizzazione.
Il problema non è “fare decreti”, ma gestire politiche complesse. Qui emerge una responsabilità politica chiara: si è scelto di accelerare procedure e scadenze senza ricostruire una macchina pubblica in grado di reggerle. Il reclutamento straordinario non ha colmato il vuoto di competenze specialistiche; gli inquadramenti e i salari offerti non sono competitivi; la formazione tecnica avanzata è rimasta marginale. Così, mentre il PNRR corre sulla carta, la PA reale arranca, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle aree interne.
Questo limite strutturale si intreccia con disuguaglianze sociali e demografiche profonde. Nel Sud i salari restano mediamente più bassi di oltre il 25% rispetto al Centro-Nord; il lavoro povero e la precarietà sono condizioni strutturali. Nelle aree interne, alla fragilità del lavoro si somma una crisi demografica severa: natalità ai minimi storici, popolazione che invecchia rapidamente, quote di over 65 che in molti comuni superano il 30%. Qui il ritardo del PNRR non è un dato contabile: significa meno sanità di prossimità, meno servizi socio-assistenziali, scuole che chiudono, giovani che se ne vanno.
La sanità è il punto più sensibile. Dove il PNRR avrebbe dovuto rafforzare reti territoriali, cure domiciliari e presa in carico degli anziani, i ritardi sono più marcati. Senza personale, senza organizzazione, senza integrazione tra servizi, anche le strutture realizzate rischiano di restare vuote. E mentre il Sud invecchia, la risposta pubblica arretra.
Il paradosso è evidente: proprio nei territori che avrebbero più bisogno di investimenti pubblici stabili, il PNRR rischia di non essere speso o di essere riprogrammato altrove. Così un piano nato per ridurre i divari rischia di moltiplicarli, lasciando in eredità debito e frustrazione.
La partecipazione degli enti locali e delle comunità non può essere invocata come alibi. Deve essere governata, inserita in una pianificazione territoriale integrata, sostenuta da lavoro pubblico qualificato
e da una chiara responsabilità politica. Le aree interne non sono un problema residuale, ma una leva strategica di sviluppo: economia circolare, gestione dell’acqua e dell’energia, agroalimentare di qualità, manifattura sostenibile, cura del territorio. Senza una PA forte, queste potenzialità restano sulla carta.
In questo quadro, Campania e Puglia possono svolgere un ruolo decisivo. I Consigli regionali neoeletti a guida progressista di Roberto Fico e Antonio Decaro non devono limitarsi a gestire scadenze, ma rigenerare le politiche di sviluppo, investendo nella capacità amministrativa, coordinando i territori e costruendo alleanze interregionali. È anche da qui che passa la sfida contro un’autonomia differenziata che rischia di rendere strutturali le disuguaglianze.
Il PNRR non è neutrale. Se fallisce nel Mezzogiorno e nelle aree interne, fallisce come progetto di Paese. Perché senza lavoro buono, senza sanità territoriale, senza giovani e senza Stato, non c’è crescita possibile.
E senza il Sud, l’Italia non va da nessuna parte.



