“Qui sono nato, figlio della terra/Sentinella di questi monti/cerco orizzonti/vette accecanti di neve e di sole”. Scrive così Peppino Iuliano nella sua raccolta “Figli della Terra”, Delta 3 edizioni, che conferma il legame viscerale con la propria terra del poeta nuscano. Lo sottolinea con forza Luigi Fontanella nella preziosa prefazione “La lingua aspra e tagliente di Giuseppe Iuliano parla di una raccolta che ‘sembra subito apparire, fin dai primi versi, come una sorta di Manifesto, personale e collettivo insieme, di una terra – segnatamente l’Irpinia – in cui lo scrivente, soggetto e oggetto della propria storia, si sente ancestralmente legato, al pari di una forte radice che è inestricabilmente connessa al suo albero”. Lo stesso carattere aspro e tagliente dei versi si fa paradigma, anche grazie alle bellissime illustrazioni di Giovanni Spiniello, “della condizione e della genialità creativa del nostro Mezzogiorno, da vivere con gioia e dolore, all’interno di una dimensione esistenziale nella quale la Poesia non ha ali mozze, ma sa, con pertinacia, accelerare le sorti di chi, nonostante tutto, la vive e da essa trae nutrimento e rivalsa”. Lo stesso poeta non smette di sentirsi “figlio orfano della terra/scruto distese uniformi/scene di macchie e di colori/stinti o luminosi riflessi di natura/tra erbe odorose selvagge e zolle sterili aborto d’incuria”. Costanti i richiama a una terra ferita, insieme arida e fertile, attraverso l’uso di metafore che richiamano la malattia e insieme il lavoro nei campi, una terra che “ha ulcere sanguinanti/nervi laceri di rinunce e bisogni, voci di solitudini, urli di silenzi, ossimori di disperazione/febbre che sfida la malasorte/ e conosce i vuoti, manifesti di anime/Qui coltivo, stanchi di sonno e morte/ solchi di germi umidi, steli e radici”.
Un Mezzogiorno che deve fare i conti ancora con disoccupazione, lavoro nero, con un “mercato di braccia in fila/per una qualche mercede”: “Caporali arruolano clandestini/legioni straniere della serra/nera la pelle più della terra/Stagione di provvida natura/assicura sazietà di mensa/avida di frutti primaticci/Lenta monotonia di fatiche/avanza la marcia delle formiche”. Eppure questa terra riesce ancora a generare, grazie a mani sapienti, al sacrificio e alla fatica dei suoi abitanti, grazie a chi non smette di credere nelle sue zolle “Terra avara, aspra di fughe/solchi/grembo di chicchi perduti/accoglie risciola e cappella/pugni di semenze e concimi/germi di spighe/vita che si rinnova….Pane e olio, sorsi di vino/pari compagni, ampolle di gusto/premiano gli anni di sonno e fatica….Da sempre ostia, sfoglia di grano/conserva mistero a conquista di cielo”.
Centrale il ruolo della poesia nella raccolta. Iuliano sa bene che la scritturs non può trasformare la realtà ma può dare voce alla sofferenza della sua genre “Nessun canto solleva/la sorte dei poveri/che hanno voce e parole/rubate alla pazienza”. Ma certo non può essere “belletto di parole colorate/morfina alla ragione”. Poichè “Qui i figli dividono la sorte dei padri/scappano ladri di fortuna/o restano disertori a maledire/appassiti nella morta somiglianza(Siamo in tanti ad avere/il cuore malato, arti dolenti/ geografia di piaghe e ferite/macchie infette che allertano l’anima/a nuovi chiodi e peccati di croce”. Una terra che non smette di soffrire, come se una maledizione l’avesse condannata in eterno, è “vuota/arida di palme e pozzi/deserto di semi e frutti/durezze della storia”, fatta di digiuno antico e l’unica speranza appare partire “I figli della terra e quelli del mare/affidano al viaggio/azzardi di futuro/Ansia di pane, ogni fatica/è invenzione e mestiere/Il dolore ha nervi scoperti/ e confini antichi/Ha occhi rossi, carboni accesi, vampe ai torti alla rabbia. Sospira e sbuffa, si affanna”.
Unico rifugio appare la memoria “Le piazze erano la nostra agorà/le case, quinte di stadio e teatro/nella recita piena dei giorni, intreccio di suoni e rumori/coro di anime, voci di resistenza”. Oggi di quel tumulto di suoni, colori e vita resta poco “Qui la realtà della morte/rapisce i sogni dalle unghie del tempo/pur esso ansimo d’agonia/Porte e finestre sbarrate/corazze con grate di ferro/hanno gerani secchi, acque marce/graffiti l’erba di muro/ geografie dell’abbandono”. Tutto parla di immobilità e abbandono. Una terra in cui “è ancora miracolo restare/mescola di parole insegue l’uguale/che fu pensiero fisso del Nazareno/Fede è ritrovarsi contrada e paese/vento e nome di piccole storie senza storia”. Per concludere amaramente che ormai “Coraggio è andare o restare/Nessuna fedeltà più obbliga/a voltarsi indietro e guardare/Dopo la festa – recita un adagio-/si contano gli sciocchi e gli ostinati/custodi di pietre e ricordi/ultima falange di restanza”. Non bastano sagre, musiche e frastuoni, birre e tarantelle tra memorie e sogni di ritorni poichè i paesi continuano ad essere “recinti vivi di silenzi e di morte parole”, dove “scorre distratta la storia/pianta storta che anima” mentre i social “novellano bibbia e storie, altre profezie”. Eppure, Iuliano ce lo ricorda, questa terra non smette di sperare.



