Non può più bastare la ricerca di un ordine che restituisca un senso al caos. Lo comprende bene ne “La fine del gioco” di Franco Festa, Robin edizioni, l’ex commissario Mario Melillo, amatissimo protagonista dei precedenti gialli, che torna ad essere figura centrale nella narrazione. Non smette di sentirsi un sopravvissuto ma non può rinunciare a interrogarsi su ciò che si muove accanto a lui, a cercare di comprendere le ragioni della sofferenza e dell’odio che lo circondano. Accanto a lui il commissario Gabriele Matarazzo, sempre più solo e disilluso, da quando è andata via la donna che amava, da quando il Covid è comparso, facendoci credere che l’unica strada possibile è quella dell’individualismo. Di fronte al violento assassinio del direttore amministrativo di una scuola del capoluogo, il cui corpo viene ritrovato senza vita, con profonde ferite alle braccia, alle gambe e al petto, completamente nudo, nell’auditorium di un istituto abbandonato e con il singolare disegno di un maiale che campeggia sul muro, i due commissari avvertono con forza l’orrore di una città che appare destinata a sprofondare nel degrado. E’ come se toccassero, ancora una volta, con mano le leggi di un capoluogo in cui non sembra esserci posto per la speranza. Una città che vive solo di feste, di cantieri infiniti, di scandali e corruzione. Nè può bastare la risoluzione del caso per illudersi che tutto possa tornare come era. Matarazzo prende coscienza, attraverso il costante confronto con Melillo, con la sua forza e il suo coraggio, di come lui stesso si sia, invece, arreso di fronte ad una realtà che appare immutabile, di come sia sprofondato nella solitudine e si sia ripiegato su sè stesso, fino a dubitare persino dei valori in cui ha sempre creduto. Ecco perchè non può e non deve essere più il commissario che è stato, avverte che qualcosa sta cambiando dentro di lui, anche grazie a quell’amico con cui condivide l’amore per la città e il desiderio di verità. Vuole e deve essere all’altezza del testimone che gli ha consegnato: “Ma più forte di tutto – scrive Festa – è la consapevolezza che dopo, dopo toccherà a lui occupare il suo posto, tenere viva la sua sete di giustizia, la sua fiducia nella possibilità di cambiare l’ordine delle cose, la sua rettitudine, il suo amore così straziato per questa città che non lo merita, di cui tante volte, nei momenti di abbandono, gli ha parlato”. Una città che si staglia in tutto il suo malessere e le sue contraddizioni, che non può non evocare, come in un singolare gioco di specchi, l’Avellino reale a cui non smette mai di guardare l’autore. Lo dimostrano i continui riferimenti a fatti di cronaca realmente accaduti nel capoluogo, a vicende giudiziarie che hanno interessato la città, proprio come l’attenta descrizione di personaggi, con l’omaggio allo storico Armando Montefusco e spazi, da Quattro Grane al centro storico, con la Dogana, cantiere senza fine e la Torre dell’Orologio, cuore che non smette di battere, presidio di luce, dove è possibile scoprire ogni giorno segnali di bellezza nascosti. E non è un caso che lì vivano sia Melillo che Matarazzo, divisi tra il desiderio di continuare a combattere e il disincanto e l’angoscia dell’impotenza. Una città smarrita e sconfitta fatta di “persone che si trascinano sul marciapiede senza energie”, come smarriti sono gli adulti che avrebbero dovuto guidarla, espressione di una borghesia corrotta che ha accettato ogni compromesso, proprio come il direttore amministrativo assassinato, simbolo di chi è disposto a tutto pur di arricchirsi, di chi pensa solo a sè stesso o della dirigente scolastica senza dignità che copre ogni genere di pratiche illecite e truffe. Una borghesia che, se non è corrotta, è stanca e rassegnata come il magistrato che si preoccupa solo della forma o di dare un nome alle cose ma non si sforza di leggere nell’animo degli uomini e delle donne che gli passano davanti. Gli stessi giovani che compaiono nel romanzo fanno fatica a trovare punti di riferimenti tra i loro padri e le loro madri, lo dimostrano personaggi come Lea, figlia del direttore amministrativo assassinato, che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, di andare al di là dell’ipocrisia che la circonda, che ha imparato a disprezzare il padre e i valori che rappresenta o Alessio che si porta dietro il dolore per la morte del padre, tragedia che ha finito col distruggere la sua famiglia e va alla ricerca del responsabile di quella sofferenza senza fine, come Sofia e Nicola, anche loro prigionieri delle loro vite deragliate. Una sofferenza che emerge con forza nel ritratto di Lea “Perchè quando lui andava via e si ritrovava sola in quella casa, sapeva che, implacabile, tutto lo schifo di prima sarebbe presto riapparso, quando la madre sarebbe tornata, salutandola appena, quando il padre sarebbe ricomparso, non si sapeva più a quale ora del giorno o della notte e neppure l’avrebbe cercata, presente solo nell’eco dei soliti gesti, la porta sbattuta, la televisione ad alto volume, una lurida musica degli anni ‘80 sparata in tutte le stanze”. E’ lo stesso Matarazzo a indignarsi con il magistrato per quella parte della società che pensa, nel leggere di crimini orrendi avvenuti in città, che non li riguardino in nessun modo “Io non c’entro, non è storia mia, anzi noi non c’entriamo, questo è il riassunto, è una generale assoluzione, un lavarsi le mani collettivo. Anche se il brodo in cui vivono è lo stesso, anche se fino al giorno prima hanno condiviso tutto”. Come se non ci si volesse confrontare con il reale, con la verità delle cose, a partire dalla famiglia, sempre più assente “E il nodo oscuro con il quale nessuno si vuole confrontare, è il mondo dei giovani, dei ragazzi, il più esposto, il più indifeso, il più crudele”. Eppure è da quei giovani che può arrivare la fiducia nella possibilità di costruire una società diversa, dall’alleanza tra vecchie e nuove generazioni come testimonia la preziosa amicizia tra Alessio e Mario Melillo capace di trasformare il rancore in speranza, nell’attaccamento di Lea a sua nonna o nel legame che Giovanni, docente fuori dal coro, che crede in una differente idea di scuola, è riuscito a stabilire con i suoi studenti. Per comprendere che il disagio dei giovani di oggi non è così diverso da quello dei giovani di ieri, si nutre di “solitudine estrema, passioni sterminate, incomprensione senza fine”. Nè serve a nulla bollarli come minaccia sociale, come spiega Alessio “Una mia amica ha problemi alimentari gravi e non ne vuole parlare. Il Covid poi ci ha chiusi in una bolla dalla quale è difficile uscire e molti non vogliono farlo. Ora è di moda trattarci come se fossimo malati. Psichiatri, psicologi….roba da ridere o da piangere….Ma parlo così in libertà, ognuno ha la sua storia, tanti se ne fottono, vanno avanti e cosa conta se ogni tanto qualcuno si perde per strada”. Eppure, ci si può salvare, Festa ce lo ricorda più volta. Ci si salva se si crede nell’amicizia, nella vicinanza a chi vive il proprio stesso dolore, nella condivisione, superando la logica del tornaconto personale, rovesciando quei principi che gli adulti vorrebbero trasmettere anche ai loro figli. Come spiega Alessio “E’ che abbiamo scoperto, ognuno a suo modo, l’esistenza degli altri. Che non sono sempre nemici, imbecilli capaci di capire, chiusi sui propri affari e sui propri calcoli, per i quali ognuno di noi ragazzi era solo un problema noioso, incomprensibile, irrisolvibile. Non è andata così per fortuna. E’ raro che accada, è quasi impossibile addirittura sperarlo ma può succedere….Noi siamo un’unica cosa, siamo un’unica voce”. Poichè, come ricorda Bianca, poliziotta capace sempre di andare al di là della superficie delle cose, che per troppi anni si è lasciata consumare dai sensi di colpa “Il mondo agitato di quei ragazzi viene prima di tutto, il loro ascolto è più importante di ogni altra cosa”. Ed è per questo che è ancora possibile sperare, che Matarazzo sa di poter ancora lottare in difesa dei deboli e degli inermi, del bene comune, poichè “Questo avere cura è il senso profondo di ogni relazione, di ogni amicizia, di ogni amore”.
Il volume sarà presentato il 19 giugno, alle 19.30, nel giardino della chiesa di Valle. A confrontarsi con l’autore Maria Grazia Cataldi, Margherita Faia, Bianca Maria Paladino. Letture di Gennaro Saveriano. La serata sarà dedicata a Antonio Ferraro, per tutti “Mast’Antonio”