di FEDERICO BIONDI
Dal volume “Andata e ritorno. Viaggio nel Pci di un militante di provincia” (Elio Sellino editore, la Liberazione, restituendo le speranze di una provincia)
1945. Dal n.1 dell’anno I del “Lavoratore Irpino” (organo della Federazione Comunista) del primo maggio: “Ultim’ora – La nostra commossa gratitudine ai lavoratori in armi che la festa del lavoro hanno mutata in Festa della libertà. Venezia e Padova liberate. Monaco occupata. Berlino sta per cadere. Mussolini ed altri 17 delinquenti fascisti giustiziati dai patrioti. Hitler sarebbe morto. E’ la fine del mondo del terrore. E’ la fine del nazismo e del fascismo in armi. Viva i lavoratori in armi”.
Dal n.1 dell’anno III dell’Irpinia Libera del 3 maggio: “La guerra è finita. Si annuncia ufficialmente che da ieri, due maggio, alle ore 14, le truppe nazi-fasciste in Italia si sono arrese incondizionatamente al Maresciallo Alexander. In autorevoli ambienti degli Stati Uniti è stato dichiarato che quanto prima l’Italia sarà chiamata nel consesso delle Nazioni Unite, di cui già da tempo fa parte moralmente e militarmente”.
Ancora dall’Irpinia Libera, n.2 del 10 maggio: “La guerra in Europa è finita. La resa tedesca, avvenuta a Reims, alle ore 2.41 del 7 maggio, è stata ufficialmente annunziata per radio da Churchill nel pomeriggio di martedì. In una grande manifestazione, tenutasi a Roma per celebrare l’avvenimento, il presidente del CLNAI Morandi ha detto: “non siamo venuti per effettuare rimpasti. Vogliamo il governo della Liberazione e della Costituente”.
A voltare l’uno dietro l’altro questi fogli, già sciupati dai lettori che per primi li ebbero tra le mani, e poi resi un altro poco più fragili dal tempo, rotti in più punti o attraversati dalle incollature e dal nastro adesivo come da una nervatura, la quale a sua volta è responsabile di nuove lacerazioni nella carta rosa dalla polvere e indebolita dall’umidità, per la squilibrata capacità di Resistenza che si è venuta stabilendo tra le parti rese più forti dalla colla e quelle non ancora toccate da tanto maldestri interventi, mi sembra di avvertire una nascosta somiglianza tra l’opera dell’inesperto riparatore di questo materiale cartaceo e il lavoro che ora vado svolgendo io di restauratore o riscopritore di fatti e idee, persone e movimenti, problemi e battaglie d’altri tempi. E, proseguendo in tale peregrina similitudine, mi chiedo anche se, accostando un fatto all’altro o un tema politico ad un’esperienza vissuta, nel tessuto di questi ricordi e ritrovamenti del passato, non vada involontariamente operando rotture ed alterazioni che deformano o rendono illeggibile la storia di questi anni lontani.
E la risposta che lì per lì mi so dare non è di quelle che possono incoraggiarmi a proseguire in una fatica che alla fin fine altro frutto non sembra promettere che quello di offrire al lettore un confuso miscuglio di fatti e immagini di diverso disegno e natura, come in un caleidoscopio. Ma poi mi soccorre l’idea che, come per la conservazione di quei fogli non si è potuto fare a meno di affidarli alle mani di un rilegatore, quale che fosse la sua perizia, così è preferibile che pure io affidi alle operazioni manchevoli della memoria la ricostruzione di un tempo rimasto finora chiuso entro l’involucro di un’esperienza soggettiva(…)
…Erano per noi giovani, anni aurorali, quelli che scorsero tra il ’44 e ’46, e nella nostra coscienza storica, ancora allo stato embrionale, accanto al patrimonio di idee che ciascuno s’era andato formando per conto suo, si venivano ora imprimendo, come su tavolette di cera ancora vergine, con la forza e l’incisività che riescono ad avere i fatti sollevati a grandezza epica, le prime cognizioni di un passato che la dittatura fascista aveva violentemente separato da noi. Ed ora ce ne riappropriavamo con la stessa furia con cui ci era stato tolto e ci abbeveravamo a quella sorgente con la foga di chi ha patito a lungo la sete; e quanto più scoprivamo che verso certi uomini e le loro idee e i loro partiti s’era accanito il fascismo in modo particolare, tanto più eravamo portati a vedere in quelli la verità e a farne le nuove guide del nostro credere e agire politico. Giacomo Matteotti, ucciso perché era divenuta intollerabile la denuncia che egli portava in parlamento delle sopraffazioni squadristiche; Antonio Gramsci, condannato a morire in carcere, perché fosse impedito ad un cervello simile di continuare a funzionare in libertà; i fratelli Rosselli, assassinati in Francia, perché la pianta velenosa dell’opposizione non riuscisse ad allungarsi con le sue radici in terra straniera, per poi tornare a vigoreggiare sul suolo italiano: furono queste le figure mitiche, i santi del nostro nuovo credo che, non ancora ammaestrato nella distinzione tra scuole diverse di pensiero, li riuniva tutti nel cielo e empireo della religione della libertà. Erano anni aurorali anche sotto il profilo della prima acquisizione di fatti e situazioni della vita reale della provincia, che attorno a noi andava pian piano accennando ad una ripresa che non poteva portare ancora con sè la soluzione dei problemi più urgenti ma piuttosto l’insorgere di questioni che fino ad allora erano rimaste come ibernate. In questo senso la stampa locale e soprattutto “Il lavoratore irpino” andava svolgendo una funzione insostituibile, sicché non mi pare inutile riprodurne ora, con la stessa causalità con cui si affacciavano allora, alcuni temi, spunti polemici e denunce d’ogni genere che quotidianamente vi comparivano.
Alcuni dei titoli che ora mi tornano innanzi mi riportano alla prima scoperta dei problemi di un mondo, il più vasto e profondo della realtà sociale, in cui pure eravamo cresciuti, noi giovani rampolli della piccola borghesia, ma quasi senza accorgercene: i contadini. Altri possono risvegliare ricordi di drammi minimi vissuti alcuni anni prima con qualche angoscia ed ora soltanto capaci di far sorridere. “Che fine ha fatto il rame delle popolazioni lavoratrici?” si chiede con una titolazione di due righe il “Lavoratore irpino” nel terzo suo numero del 18 maggio.
Si vuol sapere chi se ne sia appropriato, chi ne abbia fatto incetta, rivendendolo clandestinamente ed arricchendosi in barba alle famiglie che se ne sono dovute privare, non certamente per spirito patriottico ma soltanto per paura delle perquisizioni con cui il regime, bisognoso di questo metallo prezioso per le sue industrie di guerra, avrebbe messo a soqquadro le case, per scovare gli eventuali renitenti all’obbligo della consegna. (….)