di Milena Montanile
All’alba di Domenica, 24 agosto, nel cimitero di Aliano, con una preghiera corale davanti alla tomba di Carlo Levi, si è conclusa la quindicesima edizione del festival La luna e i calanchi, ideato e diretto da Franco Arminio. Un appuntamento ormai imperdibile, che conferma la notevole forza di attrazione e di aggregazione di questo straordinario poeta, capace di coinvolgere, in una ininterrotta sinfonia di musiche e parole, una folla straripante di persone, provenienti da zone, anche lontane, del nostro paese, tutte attratte e letteralmente affascinate dalla contagiosa e straripante vitalità del poeta-interprete della sua poesia.
E dunque una festa corale che quest’anno ha offerto un programma particolarmente ricco e articolato, con musiche, letture di poesia, concerti, dialoghi nel cuore della notte, incontri con artisti e scrittori, per confronti e riflessioni, spesso, drammaticamente attuali. Significativo l’omaggio al paese, proprio ad apertura di questo straordinario ‘viaggio’; “Aliano”, scrive, “è un paese dell’altrove” che diventa fioritura di luce e di speranza, un luogo capace di dare “un orlo al precipizio”, in una dimensione avventurosa e rassicurante. La luna e i calanchi, precisa, non è un semplice incontro festoso, ma è “una festa con un’idea dentro. L’idea è che serve una nuova funzione per i paesi: non possono vivere come hanno vissuto per tanti secoli. Ci vuole un modo nuovo di abitare un paese, un modo che metta insieme chi c’è e chi viene, intimità e distanza. E Aliano su questa strada va avanti, è un paese con tanti bellissimi musei, con un’impronta di sacro che ti sorprende in ogni angolo, in mezzo alle case e in mezzo ai calanchi. Ora che il mondo è nell’ora di punta del rancore, noi proponiamo una serena obiezione a chi crede di governare il mondo coi soldi e con le armi. Ad Aliano c’è una comunità, anche provvisoria, che prova a solfeggiare un tempo nuovo. Questa è la capitale della paesologia e la festa è naturale farla qui”. Arminio è riuscito così a tratteggiare, con poche, decisive battute di esordio, premesse al ricco e denso programma, le coordinate mentali del suo ormai consolidato e atteso incontro estivo. A dargli supporto una schiera di artisti, musicisti, scrittori, sceneggiatori che lo hanno accompagnato in questi cinque giorni di festa comunitaria, di gioia e di pensiero. Ed è proprio Arminio, con Luigi de Lorenzo, a inaugurare il festival, con Note d’avvio sotto la casa di Levi, e non a caso, proprio in nome di Levi, di cui si celebrano i cinquant’anni dalla morte e i Novant’anni dall’esilio, si è svolta da sempre, nel luogo simbolo di Aliano, questa straordinaria kermesse. Un festival dai confini spesso labili tra performance teatrali, musiche, passeggiate nei calanchi, letture di poesie, giacchè il programma si propone soprattutto come una guida, un programma aperto ad eventi e accadimenti spontanei che nascono nei vicoli, nelle piazze e nei calanchi stessi. Sicuramente un’occasione di incontro e di condivisione, ma anche di riflessione, un mezzo per sottrarsi alla tirannia dell’io e dell’individuale che oggi, più che mai, sospinge l’uomo nel baratro dello sfrenato individualismo, dell’assuefazione indolente, dell’indifferenza colpevole.
Molto ben accolta, in prima giornata, la riproposta, con la regia di Francesco Niccolini, in collaborazione con Fabrizio Saccomanno, di alcuni frammenti dell’opera teatrale, Gramsci Antonio, detto Nino, uno spettacolo che ha offerto uno sguardo intimo sulla vita del pensatore sardo, con un focus sulle sue esperienze personali, sullo sfondo del suo rapporto col PCI e il socialismo internazionale. Ad allietare la serata il concerto di musica popolare, Voci d’Arneo, ideato da Giancarlo Paglialunga (con lui Daniela Damiani, Massimiliano De Marco, Rocco Zecca, Giuseppe Anglano), voce di spicco e maestro di tamburello della scena popolare, componente storico dell’Orchestra La notte della Taranta, che ha coinvolto i presenti in un ballo corale e liberatorio, poi continuato a lungo in un coinvolgente Notturno lucano. La festa che, come di consueto, si prolunga fino all’alba, ha conosciuto un momento più intimo con la lettura del Diario di un corpo di Claudia Fabris (performer, costumista e fotografa), andato in scena all’alba del 20 agosto in piazzetta Panevino: riflessioni crude e “senza pelle”, nate dal dialogo tra il corpo dell’autrice e la campagna, scritto a Lamia Santolina durante un soggiorno di due settimane nel 2023.
La giornata del 20 si è aperta alla Casa della paesologia con una rubrica ‘a puntate’ di Donato Salzarulo (noto per la sua attenzione per i deboli, gli emarginati, gli ultimi) sul Lavoro del poeta, un appuntamento, continuato il 22 e il 23 , che ha consentito di entrare nel laboratorio di scrittura del poeta, in breve di scoprire gli ‘attrezzi’ in uso nel linguaggio poetico. I “tre giorni” di Andrea Di Consoli, giornalista e scrittore, sono stati tra i momenti più alti dell’evento, dedicati a un’analisi densa e suggestiva di tre Grandi romanzi della crisi europea: Lo straniero (1942) di Albert Camus, La morte di Virgilio (1945) di Hermann Broch a Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano, romanzi che coniugano il recente passato con un presente che ha drammaticamente smarrito il senso dell’umano. E a proposito di Tempo di uccidere, Di Consoli ha osservato che Flaiano, uomo di provincia, giunse a Roma proprio il giorno della marcia su Roma, e di Roma assimilò il totale disincanto rispetto ai tempi correnti che negavano valori e ideali. Flaiano, giornalista, scrittore, umorista e critico cinematografico, fu fine e ironico osservatore, ma al tempo stesso acre e tragico, irriverente e antiborghese, scrittore di non romanzi, ovvero di romanzi mancati. I suoi scritti sono pervasi da un’originale vena satirica e da un vivo senso del grottesco che colpivano gli aspetti paradossali della realtà contemporanea. Flaiano scrisse tanto per il cinema e lavorò a lungo per Fellini; Di Consoli ha insistito molto sulla sua grande modernità. Il punto di svolta fu l’incontro con Longanesi da cui derivò una consapevolezza più matura dei suoi mezzi espressivi. Da qui nacque l’idea di scrivere Tempo di uccidere (1947), il suo romanzo più famoso, portato a compimento in soli quattro mesi, romanzo che gli fruttò il primo Premio Strega. Di Consoli ha richiamato l’attenzione sul titolo, parafrasi di un verso biblico, in particolare dall’Ecclesiaste (“Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il Cielo”), per porre l’accento sull’ambientazione del romanzo, il deserto libico negli anni dell’avventura coloniale. Di Consoli ha sottolineato la capacità di Flaiano di andare alle radici del malessere, in sostanza di una colpa, quella di aver sostenuto e inneggiato un’azione bellica che fu qualcosa di terribile ai danni delle popolazioni occupate: sono pagine deplorevoli, rimosse dalla Storia, ma che Flaiano ha restituito in tutta la loro crudezza, distruggendo il falso mito della conquista, e lasciando una testimonianza brutale di quella che fu nei fatti una delle più deprecabili avventure storiche. Di Consoli ha ripercorso con perizia la trama del romanzo, ambientato in un altrove di cui Flaiano aveva avvertito l’estraneità, per restituirlo in tutta la sua crudeltà, analizzando bene, e con particolare acume, la vita e lo stato d’animo dell’ufficiale, protagonista principale del racconto che, giunto in Africa al seguito dei soldati impegnati nelle operazioni di guerra, non riuscì a riconoscersi nei loro sentimenti e finì per allontanarsi da quel paesaggio tenebroso e inospitale, e dai suoi stessi compagni, assuefatti agli orrori della guerra. L’Autore, che aveva avuto esperienza di ufficiale in Abissinia, alimentò un forte sentimento di vergogna di fronte a quel clima deplorevole di violenza e di soprusi. Le drammatiche avventure cui va incontro il personaggio ne fanno un uomo tormentato dal sentimento di colpa: la colpa di aver ucciso per errore una donna, e dunque un uomo perennemente in fuga, che vive in una dimensione onirica, assalito dal timore di essere denunciato e pesantemente condannato. Il racconto evolve rapidamente verso l’epilogo: l’uomo si ammala di lebbra, una condizione che riproduce sul corpo i segni della sua colpa. La putrescenza del paesaggio si riflette così su di lui, assalito da continue allucinazioni: dopo un continuo girovagare scopre che nessuno lo ha denunciato. Il protagonista attraversa esperienze dolorose in un percorso duro e sofferto che lo guida alla conoscenza di sé. La colpa, conclude Di Consoli, diventa un sentimento necessario: l’ufficiale tornerà da questa esperienza con la consapevolezza della propria miseria, speculare alla miseria degli Italiani che avevano inneggiato all’avventura coloniale. Il tema della guerra, tristemente attuale, acquista nel festival un sicuro rilievo, riproponendosi in modi e forme diverse: basti pensare alla Critica della ragione bellica di Tommaso Greco, filosofo e scrittore, scritta sulla falsariga della kantiana Critica della ragion pura, nella convinzione che è la guerra ad essere l’interruzione della pace, e non viceversa, e ciò è possibile “solo se mettiamo la pace al principio e non alla fine, così da impedire di giustificare in suo nome atti e comportamenti che la rendono sempre più precaria, se non addirittura irraggiungibile. Occorre ragionare sui mali del mondo, e sulla guerra in particolare, cambiando il nostro punto di vista e muovendo da un presupposto diverso rispetto a quello che ci vuole nemici gli uni degli altri”. In realtà non è affatto vero che la guerra appartiene alla ‘natura’ degli uomini. Di qui la necessità di contrastare la ‘narrazione’ che relega la pace nell’‘utopia’ o nell’‘ideale’.
Non c’è nulla di naturale nella guerra, e nemmeno nella pace. Ci sono solo le scelte compiute dai governanti e da chi li sostiene. Un punto di vista che ha trovato naturale sbocco nella valorizzazione dei valori relazionali, espressioni delle Comunità di pace, tenuta, sempre da Tommaso Greco, nella mattinata del 23, cui ha fatto seguito un intervento di Padre Antonio Spadaro che ha raccolto nel volume Viva la poesia! la testimonianza di Papa Francesco sulla poesia, e sul suo magistero poetico.
Suggestiva la lettura, nell’Auditorium dei calanchi, di alcuni brani tratti da La stella dell’assenza, Il libro di Ester, opera di Luigino Bruni, dove l’autore, attraverso la metafora biblica, ha restituito ai lettori un testo di resistenza etica e spirituale nei confronti di ogni impero e di ogni ideologia: “Come la Bibbia invita a vedere e a udire Dio dentro la sua assenza, così è la notte del nostro tempo, dove l’eclissi di Dio sta generando una sempre più cupa eclissi dell’umano”. Da segnalare ancora altri interessanti momenti che hanno caratterizzato la seconda giornata del festival: la lettura di brani dalla Libertà di evadere del filosofo marchigiano Roberto Mancini, che pone in essere una idea di libertà intesa come la più alta espressione della dignità umana, in grado di rendere l’uomo unico e inconfondibile, un’idea che ribalta il concetto di identità, confermando la centralità del rapporto di relazione dell’uomo con i suoi simili e con il mondo. Altretttanto interessante la riflessione, tenuta nella Casa della paesologia, del libro di Antonia di Lauro, Abitare l’effimero, un saggio che esplora le scenografie e gli allestimenti del paesaggio contemporaneo, con particolare riferimento alla dimensione temporale e instabile del nostro presente, in cui l’effimero riflette la difficoltà di creare legami forti e duraturi e la dilagante fragilità dei luoghi e delle relazioni. Affascinante il concerto per chitarra ed arpa dadaiste, tenuto sotto casa Levi, da Porfirio Rubirosa e Daniela Ippolito, Te lo facciamo vedere noi. L’amore. In serata (di mercoledì 20) l’esplosione di Canti e balli da sposalizio, a cura di Pino Gala e Tiziana Miniati, seguiti dalle musiche originali, eseguite da Gianfranco De Franco, intorno a un delitto d’onore in Calabria (Dissonorata). Per concludere, Livio e Manfredi si sono esibiti, con particolare capacità creativa, in un suggestivo “concerto distopico”, sul modello della musica dei KVB, proponendo musiche futuribili, realizzate con tecniche psichedeliche ed evocazioni di scenari apocalittici, proiettati in un immaginario futuro (2050).
Nel pomeriggio del 22 e del 23, Paride Leporace e Lucia Serino hanno inaugurato un singolare “spazio caffè”, uno spazio ‘aperto’ di discussione e incontri, riservato ad artisti e scrittori. Ospiti, tra gli altri, di questo spazio, Rocco Papaleo e Andrea di Consoli, amici di sempre, accomunati dalla medesima origine lucana. Sollecitati da Leporace, Rocco e Andrea hanno parlato del loro rapporto coi rispettivi luoghi di origine, se Rocco, originario di Lauria, ha confessato di aver maturato un rapporto col suo paese in continua evoluzione, fino a sviluppare una profonda tenerezza rispetto alle persone e ai luoghi, Di Consoli, originario di Rotonda (il comune più meridionale della Basilicata), ma trapiantato a Roma da circa un trentennio, ha definito la capitale “una città stretta, disumana”, pur consapevole di aver smarrito, nei suoi sporadici ritorni in Lucania, l’originario contatto col suo paese di origine. Ugualmente denso e interessante l’incontro, nell’Auditorium dei calanchi, tra Franco Arminio e Domenico Cersosimo, economista e politico (Riabitare l’Italia: destrutturare gerarchie, coltivare relazioni). Arminio ha aperto il confronto, notando una notevole discrasia tra quanto si legge in un recente documento, approvato dal governo, che parla, a proposito di spopolamento, di una condizione irreversibile, con basse prospettive di sviluppo, e il fervore che ha animato Aliano proprio nei giorni del festival. Arminio ha osservato quanto sia infausto per la vita dei paesi lo “scoraggiatore” di turno, aggrappato a uno sguardo negativo sul futuro. Domenico Cersosimo, da buon politico, è andato alle radici del problema, indicando, nel documento richiamato da Arminio, il segno della “sciatteria del governo, ispirato a un determinismo democratico”, fino a definire l’attuale governo “il governo dei numeri”, attento più alla quantità che alla qualità: una scelta i cui effetti più nefasti ricadono proprio sulla società di oggi, assoggettata alla logica della quantità. I numeri diventano così “il dispositivo dello spopolamento”. Cersosimo ha centrato, in sostanza, il cuore del problema, osservando che, a smentire il documento citato, è proprio la forza della “varietà” che caratterizza i paesi. Il disconoscimento di questo valore determina la logica dell’abbandono e dello spopolamento. Di qui la necessità di riportare in primo piano i bisogni e le capacità delle persone nei luoghi di origine, rivendicando per tutti il diritto a una vita dignitosa. Cersosimo, ben convinto che la rarefazione non significa annullamento di diritti, ha formulato un duro attacco alle politiche di governo, interpreti di strategie per una “costruzione politica dello spopolamento”, invocando la necessità, per chi ci amministra, di invertire questa iniqua tendenza che condanna i paesi alla subalternità, deprivando le persone del sacrosanto diritto all’eguaglianza. A riprova ha sottolineato che proprio i paesi offrono “spazi di salvezza demercificati”, luoghi in cui prevale la diversità, non la diseguaglianza. Cersosimo ha formulato in questi termini la sua ‘ricetta’ per invertire le tendenze disastrose di questo tipo di politica, scommettendo proprio sulle notevoli potenzialità che offrono i paesi, ben convinto che solo anteponendo i bisogni delle persone, e lavorando sulla varietà è possibile assicurare ai paesi un più proficuo e migliore futuro possibile.
Interessante ancora lo spazio riservato, nell’ambito del festival, alla proiezione di film (Un’estate a Sant’Arcangelo di Antonello Faretta), di Video-interviste (La terra del ricordo, un’intervista di Mimmo Cecere al fotografo Mario Carbone), alla fotografia (Geografie per immagini di Silvia Camporesi), una scelta che riflette l’interesse di Arminio per il valore e le tecniche dello sguardo.
Il festival ha toccato, nel suo travolgente svolgersi, momenti di particolare fervore, mi riferisco alla rituale, Grande passeggiata nei calanchi, accompagnata da musiche e canti, un’occasione per vivere in comunione con gli altri quel piacere della condivisione, intesa come festa comunitaria, di gioia e di pensiero. E concerti, musiche e canti hanno punteggiato le cinque le notti del festival, a partire dal Concerto per Aliano, tenuto nella notte del 20, sulle note dei Pellegrini del canto (Vincenzo Romano, Laura Paolillo, Cristina Vetrone e Lorella Monti, Francesco De Siato, Nino Conte e Leo Coppola), per arrivare alle tante esibizioni centrate sul recupero di suoni e melodie del Mediterraneo, con un interesse crescente per l’elemento folklorico: dalle felici performance di Caterina Pontrandolfo che ha reso più suggestiva la tradizionale passeggiata tra i calanchi, alle note ritmate della Zampognorchestra, che si è esibita nella notte del 21 sotto casa Levi, al Concerto per Aliano, tenuto dalla Federazione calabrese del folk, con la partecipazione di Peppe Voltarelli, Takabum, Luca Ciarla, Roberta Carrieri e Alessandro Marzano, e per finire allo spettacolo Sul filo del pianto, tenuto, ancora una volta, nella serata finale del 23, da Caterina Pontrandolfo: una celebrazione del canto popolare inteso come rito collettivo. Lo spazio musicale si è prolungato, a notte inoltrata, in Piazza Panevino, sulle note di un concerto per Aliano, eseguito da celebri strumentisti, un’occasione per dire che le parole servono ma Il cuore fa di più. In questo senso non poteva mancare l’Omaggio a Lorenzo Pataro, giovane poeta calabrese, prematuramente scomparso, introdotto da Franco Arminio con letture, emotivamente ‘forti’ di Francesca Ritrovato.
Un generale plauso ha accolto l’esibizione, nelle vesti di poeta, di Nichi Vendola che si è cimentato, nell’Anfiteatro dei calanchi, in una lettura avvincente e suggestiva di alcuni versi, tratti dalla recente silloge poetica Sacro queer, poesie che disegnano un itinerario della ragione e delle passioni, “che ha il suo orizzonte nel bisogno di fraternità, nel riconoscimento della ricchezza della diversità, nell’urgenza politica della lotta per l’eguaglianza”, valori che hanno da sempre conformato la sua vita di uomo e di politico. È questa la strada, da lui sapientemente tracciata, quasi un viatico per ritrovare sé stessi e la propria identità nella consapevolezza di un comune destino dell’umanità. “Se accoglienza, ascolto, solidarietà sono parole che non hanno diritto d’asilo nel contesto del potere, che si ritraggono e si spengono nella spirale di una storia che sembra andare al contrario, lo spazio poetico tenta un affondo nel loro significato e valore, partendo dalla prima domanda che interroga l’umano e la sua responsabilità: dov’è mio fratello? Come in una preghiera corale, Nichi Vendola ha tradotto in poesia l’immagine di sé e dei suoi “scomodi” compagni di viaggio, della sua fede abbracciata al mondo, degli affetti e dei dolori che lo hanno segnato, per restituirci il valore di un’esistenza vera, libera da pregiudizi. La ricerca della risposta a quella prima domanda diventa una pietra d’inciampo in ogni poesia, e la parola queer una dichiarazione di guerra a tutte le guerre”.
È ben evidente quanto ricco e attrattivo sia stato anche quest’anno il festival di Aliano. Ma a luci spente Arminio continua a non arrendersi, continuando, in giro per l’Italia, a praticare e a diffondere il suo credo, nella convinzione che le aree interne, ingiustamente emarginate, rappresentano la parte più vera e viva del paese: ecco perché più che di aree interne Arminio parla di aree “intense” che riflettono la resistenza dell’intelligenza artigianale rispetto a quella artificiale, “il luogo dell’intreccio tra il computer e il pero selvatico, il laboratorio di azioni urgenti e concrete per costruire una nuova poetica dell’abitare, un nuovo umanesimo di cui l’Italia può e deve essere punto di riferimento nel mondo”.