Di Gianni Festa
Era di domenica quel 23 maggio 1992. Nella mia postazione a Il Mattino irrompe l’edizione speciale del Tg1. Prime notizie incerte di un attentato sull’autostrada Punta Raisi-Palermo. Il conduttore ha un viso pallido. Sussurra appena il nome probabile del giudice Giovanni Falcone. Poi un tam-tam, gli aggiornamenti, le immagini, un brivido che attraversa l’Italia. In redazione arrivano moltissimi colleghi, chi in costume da bagno, chi in pigiama e a me tocca organizzare il lavoro. Far partire gli inviati, rovistare negli archivi alla ricerca degli ultimi omicidi di mafia in Sicilia. Tutto mentre l’angoscia trasferisce al cuore un battito tambureggiante. Così allora. Delle stragi mafiose nel decennio 1980- 2010 ero stato uno dei narratori come inviato speciale. L’hotel Delle Palme a Palermo era diventato la mia seconda casa. Avevo visto e raccontato l’omicidio di Rocco Chinnici, saltato in aria con un’autobomba, stile Medio Oriente, la prima volta fatta esplodere a Palermo. E poi, con il passare del tempo, il racconto di sangue era proseguito con la narrazione dell’attentato a Ninni Cassarà, a Beppe Montana fino a Salvo Lima il cui cadavere semicoperto da un lenzuolo avevo fotografato da una collina di fronte all’abitazione del fedelissimo andreottiano. Queste immagini e altre, come l’uccisione di Beppe Fava a Catania, quel promeriggio della maledetta domenica della strage di Capaci, mi passavano davanti agli occhi, riportandomi con la mente ad una delle espressioni di Giovanni Falcone consegnate a Marcelle Padovani in un libro intervista sulla mafia. “Tutto ha un inizio e una fine”. Quella domenica la fine la conobbero Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta del magistrato. E poco tempo dopo fu così anche per Paolo Borsellino e la sua scorta. Trentuno anni dopo con la cattura di Matteo Messina Danaro, la scomparsa di Totò, Riina e Provenzano, e tanto altro sangue di capi e capetti mafiosi rimasti uccisi, che cosa rimane della mafia? Un cambio di strategia criminale. Niente più stragi, ma una impunità che lascia perplessi. Come nel caso di Totò Cuffaro, “Vasa-vasa” che tesse alleanze politiche per riassicurarsi il controllo dell’isola. La stessa vicenda di Matteo Messina Danaro, ricercato per anni, mentre gestiva la propria esistenza da borghese eccellente, con tanto di amanti, di credito bancario, di lussuose dimore mentre lo Stato lo cercava dove tutti sapevano che era lì. O quello che emerge nel cosiddetto “caso Giletti”, con un certo Baiardo che continua imperterrito a mandare messaggi inquietanti, standosene davanti ai bar mentre lo Stato guarda, ascolta e passa. Soggetti da patrie galere che godono di una libertà incondizionata. Come coloro che con ruolo diverso uccisero Aldo Moro e oggi pontificano dando lezioni di morale standosene comodamente seduti nei divani delle loro abitazioni. Sono questi i grandi misteri italiani per tragedie che hanno ferito tragicamente il Paese. Oggi la mafia non fa rumore perchè i vari capi che controllano i territori si sono imposti una tregua, una pace provvisoria. Se si rompe questo equilibrio è molto probabile il ritorno al terrore. La mafia, e con essa la massoneria deviata, gestisce il controllo del mercato della droga, degli appalti pubblici, delle grandi opere da realizzare. Dietro l’angolo si nasconde il Grande Affare del Pnrr che movimenta miliardi di euro, come anche il Ponte sullo Stretto. Da tempo ormai sono i colletti bianchi a disegnare le strategie. Usando un esercito di sfaccendati che all’improvviso diventano ricchi, grandi imprenditori, dispensatori di mazzette, o ripulitori di danaro sporco. Ecco perchè il ricordo stragista e il sangue di tante vittime diventa anniversario da non dimenticare. Oggi sul Paese soffia, e più forte ancora, una diffusa immoralità, una corruzione peggiore di quella che fu tangentopoli. Si assiste impotenti alla rinuncia della stagione dei doveri. Avanza, senza pudore, l’opportunismo, la collusione tra politica e mafia.