Il 10 maggio di quest’anno la Camera dei deputati ha bocciato la proposta di legge costituzionale presentata da Fratelli d’Italia che mirava ad introdurre nell’ordinamento l’elezione diretta del Capo dello Stato, cui attribuire i poteri esecutivi per volontà diretta del popolo. L’iniziativa legislativa di Giorgia Meloni si è infranta di fronte ad un emendamento soppressivo del Movimento 5 Stelle e di Azione (Calenda), mentre alcune modifiche a firma di Forza Italia e Italia viva non hanno avuto fortuna. Scottata per la bocciatura della riforma che è da sempre (almeno dai tempi di Giorgio Almirante) un cavallo di battaglia della Destra italiana, Giorgia Meloni ha commentato: “Il presidenzialismo è la madre di tutte le riforme per chi pensa al di là dei proclami che la sovranità davvero appartenga al popolo e vuole una politica davvero capace di decidere e che si assume la responsabilità delle decisioni che prende. Chiunque ami davvero questa Nazione non può non fare in coscienza una valutazione approfondita di questa questione”. Allora, più di due mesi fa, i giornali dettero poco spazio a quella iniziativa parlamentare che sembrava un riflesso condizionato, quasi un tic del partito erede della tradizione neo-post fascista italiana, da sempre presidenzialista. Ma quel voto torna d’attualità oggi, due mesi e mezzo dopo, quando il partito di Giorgia Meloni appare destinato non solo a vincere le elezioni ma soprattutto a raccogliere attorno a sé, nel nuovo parlamento a ranghi ridotti, una maggioranza capace di modificare la Costituzione senza l’ingombro del voto di un’Assemblea costituente o di un referendum popolare confermativo. L’evocazione di Giorgia Meloni, il richiamo al popolo sovrano, la suggestione di una democrazia capace di decidere senza ostacoli, modificando gli equilibri fra i poteri dello Stato, sono presenti nel dibattito pubblico italiano almeno da quando Bettino Craxi evocò, alla fine degli anni Settanta il tema della “Grande Riforma”, destinato a restare sulla carta, nonostante l’impegno del segretario socialista. Non è che da allora nulla sia cambiato nell’ordinamento e soprattutto nella prassi istituzionale italiana: tutt’altro. Solo che le modifiche, anche rilevanti, sono avvenute senza spostare il baricentro dei poteri, che è rimasto in capo al parlamento, a vantaggio però dell’esecutivo, pur sempre sottomesso al voto di dì fiducia delle Camere. L’equilibrio tra i due poteri, in un sistema che continua a privilegiare il principio della rappresentanza, si è visto anche negli anni appena trascorsi (e non ancora conclusi) nei quali il rincorrersi delle emergenze (sanitaria, sociale, economica, bellica) ha comportato un rafforzamento dell’esecutivo sul Parlamento, che si è manifestato prima con il ricorso ripetitivo ai Dpcm (governi Conte) che hanno bypassato la rappresentanza parlamentare, poi (governo Draghi), con i decreti-staffetta sull’invio di armi all’Ucraina. In entrambi i casi – governi Conte, governo Draghi – l’esecutivo ha esercitato poteri eccezionali resi necessari per far fronte all’eccezionalità della situazione; ad un certo punto però il parlamento si è riappropriato delle sue prerogative e ha sfiduciato il governo. Ora, naturalmente, ognuno potrà formulare il proprio giudizio sulle recenti vicende politiche (se sia stato o no bene sfiduciare i due governi Conte o il governo Draghi in relazione alle politiche che stavano svolgendo); ma deve esser chiaro che questo dibattito rischia di diventare puramente teorico di fronte all’ipotesi di una modifica dell’ordinamento costituzionale della Repubblica resa possibile da un voto popolare che attribuisca ad un partito, egemone sulla coalizione di centrodestra, la facoltà e i numeri per cambiare la Costituzione. Per Giorgia Meloni il discrimine è chiaro: chi si oppone al presidenzialismo vuole semplicemente “continuare a fare i giochi di palazzo sulla pelle dei cittadini”; e sarà su questo che Fratelli d’Italia chiederanno il voto agli italiani il prossimo 25 settembre.
di Guido Bossa