di Stefano Carluccio
In una classe della scuola primaria di un paese dell’Alta Irpinia, cinque bambini seguono la lezione. Sono di età diversa, ma condividono lo stesso banco della conoscenza: la maestra li guida tra lettere e numeri in un’aula multiclasse, dove il tempo si dilata e si adatta alle esigenze di ciascuno. Questa scena, sempre più comune nelle aree interne del Sud Italia, racconta molto più di quanto sembri. Parla di una scuola che resiste, si reinventa e, allo stesso tempo, riflette la fragilità di un territorio che cambia.
La situazione delle scuole nei piccoli comuni irpini è strettamente legata allo spopolamento e all’invecchiamento della popolazione. Secondo i dati ISTAT, la provincia di Avellino ha perso circa il 10% della popolazione negli ultimi 15 anni, con picchi superiori al 20% nei comuni montani più isolati. Questo calo demografico ha conseguenze dirette sul sistema scolastico: meno bambini significano meno classi, meno plessi scolastici, meno insegnanti. Tra il 2000 e il 2022, in Campania sono state chiuse oltre 400 scuole, la maggior parte proprio nei piccoli centri delle aree interne.
Nell’Irpinia profonda, molte scuole elementari e dell’infanzia sono state accorpate, trasformate in pluriclassi o addirittura soppresse. In alcuni casi, i bambini sono costretti a spostarsi ogni giorno per decine di chilometri, su strade spesso impervie, per raggiungere il plesso scolastico più vicino. L’istruzione, che dovrebbe essere un diritto garantito e universale, diventa così un percorso ad ostacoli. Le famiglie si interrogano sulla qualità della didattica, i sindaci si trovano a difendere l’esistenza delle scuole come si difende un ospedale o un tribunale: non solo per l’utilità del servizio, ma per il valore simbolico e strutturale che rappresenta.
Perché una scuola, in un paese di mille anime, è molto più di un edificio. È un presidio sociale, un luogo di incontro, un argine contro l’isolamento. Quando una scuola chiude, si spegne una luce che tiene insieme la comunità. E quando resta aperta, anche con pochi alunni, è un segnale di vitalità. Lo ha ribadito anche l’Unione Europea, che ha inserito il contrasto alla marginalizzazione educativa nelle aree rurali tra gli obiettivi strategici della programmazione 2021–2027.
A complicare il quadro c’è il problema della dispersione scolastica, che nelle aree interne meridionali supera spesso la media nazionale. In Campania, secondo i dati ISTAT 2023, il tasso di abbandono scolastico precoce si attesta intorno al 16%, contro una media italiana del 11,5%. Nelle aree più svantaggiate dell’Irpinia, il rischio è ancora maggiore, specie per gli studenti delle scuole superiori, che spesso devono affrontare lunghi tragitti giornalieri per frequentare gli istituti nei centri più grandi.
Eppure, proprio in questi contesti difficili, stanno emergendo pratiche virtuose. Alcuni dirigenti scolastici hanno promosso modelli di didattica flessibile, laboratori interdisciplinari, esperienze didattiche in natura o in collaborazione con associazioni culturali e aziende agricole. Le “scuole di comunità”, sostenute da fondi europei o progetti PNRR, puntano a rafforzare il legame tra scuola e territorio, valorizzando le competenze locali, le tradizioni, l’ambiente.
Il digitale rappresenta un’opportunità importante, ma non risolve tutto. Se da un lato la didattica a distanza ha permesso, soprattutto durante la pandemia, di garantire una certa continuità educativa, dall’altro ha messo in evidenza le diseguaglianze digitali. Connessioni lente, mancanza di dispositivi, assenza di supporto familiare: sono criticità che nelle aree interne si manifestano con maggiore forza.
Un altro aspetto cruciale è la formazione e la stabilità del personale docente. Nelle scuole di montagna o dei paesi più isolati, il turnover degli insegnanti è spesso altissimo. Molti docenti, assegnati con incarichi annuali, vivono lontano e non riescono a creare un legame solido con la comunità scolastica. Questo genera discontinuità didattica e indebolisce la qualità dell’offerta formativa. Incentivi per la permanenza e formazione specifica per lavorare in contesti fragili potrebbero rappresentare un passo avanti concreto.
Nel frattempo, alcune amministrazioni comunali stanno tentando di fare la loro parte. Ci sono sindaci che investono su trasporto scolastico gratuito, mense di qualità, servizi integrati con le famiglie. Piccole scelte che possono fare la differenza nella decisione di restare o partire. La scuola, in questo senso, diventa una leva di sviluppo locale. Se c’è una buona scuola, può esserci una nuova famiglia, un bambino in più, un futuro possibile.
L’Irpinia, come molte aree interne italiane, è chiamata oggi a una sfida delicata ma fondamentale: garantire il diritto all’istruzione in territori fragili senza rinunciare alla qualità. Non basta mantenere aperte le scuole: bisogna ripensarle come centri educativi diffusi, aperti, integrati, capaci di parlare con il territorio e con il mondo. Solo così la scuola potrà continuare a essere, anche nei borghi più piccoli, il primo mattone per costruire futuro. Stefano Carluccio