Nella riflessione settimanale precedente parlai del rischio che una sfera sempre più ristretta di addetti ai lavori della politica – per quel poco che resta di essa – decida dei grandi temi sociali ed economici delle giovani generazioni, mentre il connesso dibattito pubblico si rivela impotente, con il solito approdo sui temi identitari. I giovani, ho sempre sostenuto, hanno urgente bisogno di coniugare sapere e saper fare, creando comunità in cui sapere, progetti e linguaggio vengono seriamente ibridati, attraverso una efficace e permanente formazione. Questa auspicata prospettiva – nell’attuale momento in cui è indispensabile riscoprire i valori che hanno generato la nostra democrazia – ha bisogno di essere costruita sulla via della cittadinanza attiva, più volte evocata sulle pagine del nostro quotidiano. A sostegno di questo percorso progettuale è significativo l’obiettivo della formazione politica dell’Istituto Arrupe di Palermo che ha messo in cantiere – nei quartieri del centro storico e delle periferie, luoghi spesso marginali attraversati da ferite sociali annosi, ma anche ricchi di umanità e di pratiche urbane trasformative – percorsi di cittadinanza attiva che hanno coinvolto i giovani e meno giovani, italiani e migranti, divisi in gruppi –laboratori attivati con modalità itinerante. Da questo prezioso patrimonio di esperienze e riflessione, è maturata la consapevolezza che la cittadinanza attiva è innanzitutto creativa, perché nasce sempre da una visione radicata nel concreto di una realtà sociale aperta al cambiamento. Tale visione, però, non può essere schiacciata dalla ricorrente tentazione di protagonismo affannoso che rischia di eliminare il pensiero, ossia l’anima critica e generativa da cui nasce l’azione. È un rischio, questo, che l’attuale governo ha inconsapevolmente – almeno speriamo che sia così – promosso con l’idolatria del merito, merito che va comunque promosso con il necessario sostegno delle condizioni necessarie. In realtà il gesto, il percorso progettuale della cittadinanza attiva, non può essere solo la risposta ad un problema o ad uno specifico obiettivo, ma è innanzitutto una inquietudine etica, un’ingiustizia sociale, un diritto negato, un bisogno anche immateriale ignorato e, quindi, non soddisfatto. In sostanza la cittadinanza attiva dev’essere il punto d’incontro tra il bene interno della nostra vita e il bene esterno, inteso come bene comune, ossia cura della nostra casa comune e dei beni della collettività, non escluse le precondizioni necessarie per attuare tale obiettivo. Il riconoscimento, per esempio, della biodiversità come risorsa capace di tessere legami e connessioni nelle nostre piccole comunità trasgressive, disarmate e vulnerabili. Trasgressive perché si lasciano sorprendere dalle novità, senza progetti precostituiti, capaci, però, di mettersi in viaggio: oggi siamo tutti migranti, nel senso che tutti lasciano porti sicuri per un viaggio nel mare aperto della complessità. Siamo comunità disarmate perché accompagniamo processi di crescita verso l’autonomia lasciandoci alle spalle le armi degli stereotipi, delle ideologie e siamo disponibili alle nuove esperienze comunitarie di convivenza e di possibile felicità pubblica. Siamo, infine, vulnerabili, perché siamo attraversati da conflitti e ferite collettive, ascoltando le ragioni di tutte le parti in gioco: a Palermo, con la presentazione del volume “Il Vangelo e le strade” gli autori, tra cui l’arcivescovo, si sono recati nei vari quartieri, hanno incontrato le persone, ascoltandone le storie, e sono così nate iniziative di recupero di spazi urbani. Da queste significative esperienze di cittadinanza attiva, ci viene consegnato il messaggio che le comunità in cui viviamo non sono spazi neutri, ma luoghi in cui si gioca la qualità della nostra relazione e delle nostre vite, come persone con le nostre esigenze e le nostre comuni speranze.
di Gerardo Salvatore