Tanti gli spunti di riflessione emersi dalla presentazione, tenutasi ieri al Circolo della stampa, del volume di Vera Mocella “In questa immagine avrò vissuto”, Rp Libri. A confrontarsi con l’autrice Monia Gaita, Floriana Guerriero, Gaetana Aufiero e Ilde Rampino. Proponiamo di seguito l’intervento di Monia Gaita.
di Monia Gaita
Da poco ha visto la luce il libro di Vera Mocella “In questa immagine avrò vissuto”, uscito per i tipi di RP Libri Editore. Conosciamo tutti Vera Mocella per il suo fulgido percorso nel campo della scrittura che spazia con sapiente chiaroveggenza, tra folte e complementari escursioni, dal giornalismo alla riflessione filosofica, dall’indagine teologica all’articolata forgiatura della creazione poetica. Già nel titolo dell’opera “In questa immagine avrò vissuto”, la presenza del futuro anteriore “avrò vissuto” indica il passato nel futuro, designa cioè, un insieme di esperienze, fatti o eventi, considerati come compiuti, ma che si prolungano e si innestano nell’area dell’avvenire.
Ciò che deve ancora venire si bagna alla fonte del passato, e anche nominalmente, “avrò vissuto” rappresenta lo spazio di un futuro che non può esistere senza passato e che può essere immaginato solo attraccando alla banchina del passato, al molo di ciò che fu, di ciò che è stato, di ciò che è e che sarà.
Claudia Iandolo nella forbita prefazione constata: “L’autrice spiazza il lettore fin dall’inizio con un’opera che è al tempo stesso una confessione e un dialogo. L’alternanza di prosa e poesia è solo apparente perché tutto il lavoro è poetico nel senso alto del termine”.
Non possiamo non essere d’accordo se l’autrice ricorrentemente ingloba al fabbricato espressivo robusti e ammalianti edifici di fibre e di tracce poetiche. Anzi, più che di annessione parlerei di fusione, dal momento che poesia e prosa diventano un tutt’uno.
Al centro del racconto si colloca un canto lirico potente e corale che simile al frumento granisce, in una filigrana di rivelazioni gravide di sangue vivo e di memoria nostalgica per l’amore perduto. L’addio dell’uomo amato è il trauma eterno con cui fare i conti ogni giorno: “Sono trascorsi ormai trenta anni – scrive Vera Mocella – da quando mi hai detto addio, ed io ti vedo ancora lì, fermo sul viottolo del giardino, le mani nelle tasche, ed un sorriso sconosciuto sul tuo volto. Questo è stato il tuo modo di salutarmi, il tuo modo di essere dentro di me, per sempre”. E ancora: “Solo se esisto in te, posso essere speranza che non si sgretola, sussurro che non muore. Solo se tu mi parli, posso diventare il mio destino”. Due sono i concetti che affiorano immediatamente da questi versi. L’amore non capitola e non molla, fruttifica in ogni clima, si fa dimora nel tempo oltre la distanza fisica poiché i suoi fili vengono tenuti saldi e incorrotti da una purezza di sentire che non patisce contrazione, crollo, decremento. L’altro concetto è quello della necessità di entrare in un altro corpo, in un altro cuore: il corpo e il cuore dell’amato.
Al di fuori di questa identità, di questo reincarnarsi abitando l’altro, non può esistere alcuna forma o fruizione di esistenza. Il ricordo, col suo patrimonio aureo di voci, di gesti e di visione, diventa il salvagente che permette alla poetessa di galleggiare in sicurezza impedendole di affondare. “Esiste una memoria dello spazio e del tempo – scrive – dove gli attimi eterni non scompaiono, non muoiono, dove nulla è perduto, dove niente può smarrirsi o dileguarsi come una nuvola scura che scompare dietro l’orizzonte”. E ancora: “Lontani, non siamo mai stati così vicini”.
Ecco che il tempo e lo spazio custodiscono ciò che accade strappandolo alle galassie della dimenticanza, lo estraggono dal pozzo della morte e lo risuscitano, dandogli nuova linfa, forza, grazia. Non importa quanto un amore duri, non importa se dopo tanta meraviglia, anche breve, giunga una frana a travolgerlo e a portarlo via. Nessuno smottamento, nessun uragano, nessun cataclisma capaci di distruggerlo o di lesionarne irrimediabilmente muri e fondamenta.
“Esiste solo l’amore – dichiara l’autrice – ma esiste solo l’intensità dell’amore, l’intensità di un attimo fugace ed eterno”. Conta l’intensità non la quantità, conta l’energia non la durata. È la rivalutazione dell’attimo, la sublimazione dell’istante. La perfezione è il lampo, la ferita spessa che non cicatrizza e si introduce nelle maglie dei minuti senza attivare meccanismi di difesa e di riparazione.
Ascoltiamo questo passaggio: “Tu pensi forse che i luoghi in cui ti conduco, saranno sempre meravigliosi, ma non è così, a volte, lo so, lo sento, saranno luoghi impervi, con rocce dure, taglienti, con strade ripide, a picco sul mare. Ma sarà là che noi andremo, perché la vita è anche acre, oltre che meravigliosa, sorprendente, incomprensibile, e il tuo destino si intreccia con il mio”.
Vera Mocella conduce il suo amore anche dove il pericolo cresce, nelle cellule di un dolore che non può essere sanato, nel traforo di un taglio che non riceve guarigione. “Falcio il mio cuore / con instancabile pena”, sostiene la poetessa, per la quale: “Ci si innamora solo per scoprire la propria anima”. “Senza di te – dice – non sono che il mio sogno”. Questo significa che il sogno dell’autrice, in assenza dell’amato, è un sogno guasto, monco difettato. È il sentimento d’amore a convertire il sogno individuale in sogno universale, un sogno in cui la coincidenza tra l’io, l’universo naturale e l’universo intangibile e latente si fa conclusa e piena.
Per Vera Mocella l’amore costituisce l’unica via d’accesso alla conoscenza di sé stessa. Il linguaggio, trapunto di raffinatezza e musicalità, è incalzato dalle variabili spirali di un diario introspettivo dove la tessitura narrativa non scema mai in coesione e consistenza. Una prosa/poesia cantabile, eretta con fluidità e distinzione di selezionatissimi e malinconici ritmi. Questo libro ci consente di vincere uno dei più insidiosi nemici interiori: la rassegnazione.
Ci educa a sperare, a piegare il nostro fertile agognare verso un possesso indissolubile: l’amore che abbiamo vissuto non tramonta mai e anche quando sembra impallidire e collassare, si cementa e si rigenera in una malta di spiritualità. Può accadere che l’amore venga sottratto a categorie di tipo realistico e proiettato in un piano emblematico e metafisico, mitico e ancestrale, onirico e sacrale. Nel qual caso non è meno vivo, meno ossigenato, meno vibrante, meno vero.
Per Vera Mocella la poesia ha una motivazione, una determinazione ontologica: è l’unico strumento per attingere all’Assoluto. La poesia è per lei ciò che era per Stéphane Mallarmé. Mallarmé, il re del Simbolismo, in una lettera inviata a Paul Verlaine nel 1885, definì la poesia: “L’explication orphique de la Terre”, la spiegazione orfica, misterica della Terra, la spiegazione del mistero che è nell’esistenza. Io credo che anche per Vera Mocella, la poesia sia il tentativo di cogliere e stanare il grande arcano in cui siamo immersi.