Sta facendo molto discutere l’introduzione dell’intelligenza artificiale nel mondo delle professioni. Le arti liberali sono per natura ispirate all’autodeterminazione, alla creatività e alla responsabilità individuali. Come tali, esse devono affrontare l’opportunità o meglio l’assalto dei grandi modelli linguistici (LLM, large language model), che rappresentano un tipo di intelligenza artificiale addestrato e specializzato nei processi di elaborazione, comprensione e generazione di linguaggio umano. Al riguardo, è da poco stato emanato il Regolamento 2024/1689/UE del 13 giugno 2024 (AI Act), la cui efficacia regolativa e contenitiva delle pratiche distorsive va ancora testata.
Pensiamo alla figura professionale ‘demometrica’ per eccellenza, perché utile a valutare il grado di democraticità del tessuto sociale: l’avvocato. Essa si trova alle prese con una innovazione tecnologica particolarmente intrusiva del suo campo d’azione: la parola. L’IA generativa gli si profila come un fenomeno di intrigante e inquietante ambivalenza.
Da un lato promette ed è in grado di sollevare il professionista legale da onerose ricerche normative e giurisprudenziali e, soprattutto, dalla impostazione e redazione degli atti processuali e non. Dall’altro, non solo non garantisce la correttezza e la qualità professionali dei risultati ma rischia anche – inibendoli – di sterilizzare i benefici dell’esperienza intellettuale acquisita.
I Tribunali stanno ammonendo gli avvocati che l’applicazione dell’intelligenza artificiale nella stesura degli atti non può prescindere dal controllo critico del professionista, pena la produzione di difese manifestamente infondate ( per non dire ‘sballate’). Nel campo del diritto, c’è ancora necessità – per ora – della vigilanza e dell’intervento di un essere umano qualificato. Inutile osservare come gli avvocati di formazione tradizionale guardino con motivata diffidenza, se non con vero e proprio rifiuto all’IA; e come, all’opposto, quelli più giovani siano attratti dalla sempre più ampia ‘delegabilità’ della fatica professionale alla macchina. Non c’è da scandalizzarsi. Resta da capire se e in che modo la formazione universitaria e post-accademica, così ansiosa di affidarsi alle meraviglie dell’ IA generativa, consenta ai nuovi avvocati di sviluppare il controllo critico, richiesto dai giudici ad argine dell’utilizzo irresponsabile e indiscriminato degli LLM. Comunque – ci si conforta – è stata introdotta la norma secondo la quale l’avvocato deve dichiarare, al momento dell’incarico, di fare uso dell’intelligenza artificiale. Disarmante ingenuità. Complice l’anagrafe, tra qualche anno non esisterà alcuna differenza tra linguaggio umano e linguaggio delle macchine. A tutto e triste svantaggio del primo.
La competenza professionale dell’avvocato ha trovato fissa dimora nell’autonomia e nell’originalità dell’impostazione difensiva, pur nella cornice del diritto vigente. Adesso, sembra essere arrivata l’epoca dell’avvocato artificiale.