E’ durata appena 24 ore quella che è stata definita la prima “crisetta” del governo Draghi a meno di otto mesi dalla sua nascita in Parlamento, e si è conclusa nell’unico modo possibile, cioè con il rientro nei ranghi del segretario leghista, che ha ottenuto la conferma dell’impegno da parte del presidente del Consiglio “a evitare ogni aumento della pressione fiscale” come si legge in un comunicato ufficiale. Ma resta l’impressione che qualcosa sia cambiato nei rapporti politici e che le ripercussioni dello “strappo” sulla riforma del catasto si faranno ancora sentire. La forzatura operata da Salvini rispondeva a due esigenze di fondo: confermare il ruolo del suo partito pur indebolito dall’esito negativo delle elezioni amministrative, e sterilizzare sul nascere la fronda dei vari Zaia, Fedriga e soprattutto Giorgetti, insofferenti delle ricorrenti pulsioni populiste del segretario, ossessionato dalla pressione di Giorgia Meloni e tentato di inseguirla sul terreno del movimentismo più spregiudicato. Ora, su entrambi i punti Salvini ha ottenuto un risultato per lui positivo: l’impegno di Draghi a consultazioni periodiche con lui (e naturalmente anche con gli altri segretari della maggioranza) conferma che per il capo del governo la Lega è rappresentata da Salvini e non da altri, nonostante il buon rapporto personale dell’ex governatore della Bce con l’attuale ministro dello Sviluppo economico; la promessa di assoluta neutralità fiscale azzera anche la ricorrente richiesta del Pd di una piccola patrimoniale sulle successioni, che il leader leghista può vantare come un successo nei confronti di tutta la destra, di maggioranza e di opposizione. Detto questo, ci si può chiedere quanto durerà la soddisfazione ostentata giovedì dal segretario all’uscita da palazzo Chigi. Una prima risposta si avrà fra meno di due settimane, quando l’esito dei ballottaggi metterà in luce ancora una volta la crisi di tutta la coalizione, della quale sarà soprattutto la Lega a pagare il conto. A quel punto la fronda interna risolleverà il capo, la linea ondivaga del segretario sarà di nuovo messa sotto accusa e anche la sua capacità negoziale nel governo si ridurrà. Probabilmente ciò non comporterà nell’immediato l’apertura di una crisi vera e propria, che Salvini non si può permettere in questo momento; ma se è difficile pensare che la Lega con l’attuale assetto di vertice possa affrontare le prossime elezioni politiche nel 2023 o anche prima restando in maggioranza insieme a Pd e Cinque Stelle, non si può dire con certezza quanto a lungo l’attuale coabitazione possa durare. Il fatto è che il risultato delle elezioni amministrative si è già fatto sentire sugli equilibri di governo, e la “crisetta” innescata da Salvini è solo il primo sintomo di una situazione in evoluzione. I partiti, galvanizzati o mortificati dal voto, hanno rialzato la testa e i toni fortemente polemici del Pd contro la Lega fanno ipotizzare che presto si potrebbe arrivare alla rottura della convivenza. Promettendo incontri periodici con i segretari di maggioranza, Mario Draghi ha avviato un percorso che potrebbe modificare il profilo del governo, nato esplicitamente senza una formula politica tradizionale, forte di una “neutralità” che lo ha finora messo in condizione di reggere con successo il confronto con l’Europa sui fondi del Recovery plan. L’altro giorno è stata la cancelliera tedesca Merkel a riconoscere al nostro presidente del Consiglio il merito dei risultati ottenuti, ma ora la progressiva trasformazione del governo in senso politico potrebbe paradossalmente indebolirlo, imponendo l’esame di un’agenda, quella dei partiti, non sempre coincidente con quella dell’esecutivo.
di Guido Bossa