E’ un itinerario che esplora l’universo femminile nel Rinascimento tra mito e poesia il nuovo numero di Riscontri, presentato ieri pomeriggio alla Libreria Mondadori, nel corso di un incontro moderato da Gianluca Amatucci, alla presenza del direttore dell’archivio di stato Lorenzo Terzi, di Maria Rosaria Pelizzari, docente all’Università di Salerno, della professoressa Milena Montanile, tra le autrici dei saggi contenuti nella rivista e dell’editore Ettore Barra. E’ Pelizzari a soffermarsi sui sentimenti come filo conduttore dei saggi che compongono la rivista “Il problema resta quello delle fonti, poichè per troppo tempo le donne sono state raccontate solo da uno sguardo maschile, costrette a fare i conti con una cesura tra sfera pubblica e privata, impossibilitate a far sentire la propria voce nella società e in politica” . A introdurre il numero della rivista, edita da Delta 3, l’editoriale di Ettore Barra che si interroga sulla legittimità di uno Stato che si illude di riuscire a eliminare i crimini d’odio, senza essere neppure in grado di dare una definizione univoca della parola odio o semplicemente spera di poter risolvere il problema della violenza con l’educazione sentimentale, sostituendo sentimenti giudicati deleteri con altri che lo Stato ritiene giusti. Come se si trattasse di un’operazione puramente meccanica. A sottolineare l’alta qualità dei saggi pubblicati che consegnano un quadro complessivo della condizione e della rappresentazione delle donne, spesso ridotte a mito o immagine stereotipata, Lorenzo Terzi. Pubblichiamo di seguito l’intervento della professoressa Milena Montanile.
Un ringraziamento particolare al direttore di “Riscontri”, Ettore Barra, che ha raccolto, come meglio non avrebbe potuto, la preziosa eredità lasciata dal fondatore, prof. Mario Gabriele Giordano, continuando fattivamente, nel segno dell’assoluta indipendenza, la vita di questa rivista. Era questo l’obiettivo, già chiaramente espresso dal fondatore, nel suo primo editoriale, quasi un atto di nascita della rivista, in cui esponeva le linee programmatiche, condensate nel titolo felicemente scelto di “Riscontri”. L’intento era quello di dar vita a una rivista libera e aperta, estranea a ideologie precostituite, indipendente da cordate accademiche o da circoli intellettuali ristretti, e dunque espressione di una cultura intesa come coscienza critica della realtà, capace di operare non per dogmi ma per “riscontri”, appunto, matrice di comportamenti anche etici e politici, come per altro dimostra il bell’editoriale su La Repubblica dei sentimenti, che nella forma dell’elzeviro, Ettore Barra, oggi direttore della rivista, ha posto ad apertura di questo fascicolo.. Un obiettivo coraggioso, dunque, quello che ha ispirato il suo fondatore, nell’idea di dar vita a questa rivista, quasi una sfida, nel panorama dei periodici che affollavano la scena culturale alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. E proprio questo intento, che ha contraddistinto “Riscontri” fin dal suo primo apparire, ha reso più lodevole e prezioso il lavoro di Mario Gabriele Giordano che è andato avanti coraggiosamente, fidando solo sulla forza delle sue idee, in una realtà forse non ancora preparata, o restia a sostenere imprese di questo tipo. L’idea di dirigere una iniziativa fondata su simili premesse, spiega l’entusiasmo con cui Ettore Barra, figura di attivo ed energico operatore culturale, ha accolto l’impegno di portare avanti questa rivista, in assoluta continuità con gli intenti del suo fondatore. In questa direzione va anche l’orientamento che lo ha guidato nell’allestimento del fascicolo che stasera qui si presenta (a. 46mo, n.2 – 2024), che si apre su proposte trasversali e su originali riletture critiche. Cito appena il bel saggio di Carlo di Lieto, presenza storica sulle pagine di questo periodico, che partendo dall’hortus conclusus del Tìaso di Saffo, restituisce al sentimento di Amore, inteso e praticato dalla poetessa di Mitilene come valore eccelso, il senso suo più vero, un sentimento che non a caso trova espressione in uno spazio ‘controcorrente’ nella società del tempo, a dispetto del persistente misoginismo imperante nella Grecia classica dell’epoca ( V sec. a. C.), e delle deformazioni (distorsioni) cui fu sottoposta la figura di Saffo che alimentarono tutta una tradizione leggendaria e favolistica con sviluppi diversi in età ellenistica e romana.
Interessante anche la rilettura che Leonardo Lastilla ha offerto della narrativa di Fenoglio da La Malora al Partigiano Jonny, e il bel saggio di Maria Leo che coglie con acume i valori simbolici del Linguaggio del fuoco nell’opera di Giovanni Dotolì. La studiosa ripercorre con fine senso critico l’itinerario artistico dell’autore, sottolineando l’alta frequenza di questa figura che diventa nell’ universo poetico dell’autore un’immagine-simbolo, un’analogia, una metafora della vita, anzi della dialettica della vita, per intenderci il fulcro vitale del suo immaginario poetico. Da segnalare anche il suggestivo ricordo che Riccardo Renzi offre di Osvaldo Licini, pittore e scrittore marchigiano, a 130 anni dalla nascita. A impreziosire il fascicolo la rubrica Occasioni che riflette ancora una volta l’apertura della rivista a temi e questioni funzionali a una idea rinnovata di cultura, innervata nel presente e proiettata verso un futuro possibile. Di particolare interesse l’articolo di Alessia Vacca su L’Avvento nella innografia ambrosiana, un affondo di sicuro rilievo critico che dimostra la capacità dell’autrice di muoversi con disinvoltura nell’analisi di un genere poetico che affonda le sue radici nella Grecia antica, ma che grazie alla mente del vescovo di Milano, Ambrogio, acquista, a partire dal 386 d. C. una nuova sensibilità poetica. La studiosa analizza con acume le caratteristiche metriche e retoriche di queste composizioni, legate ai diversi momenti della giornata o a particolari ricorrenze liturgiche, nelle quali il filo conduttore è dato dall’allegoria del bene che trionfa sul male, e dove l’elemento luciferino diventa funzionale alla mentalità cristiano-cattolica e ben in linea con l’intento di Ambrogio di riproporre il modello antico del Dio, portatore di luce. L’autrice si inoltra sapientemente in una lettura filologica e linguistica attenta che è prova della solida impalcatura metrica e retorica di queste composizioni, ne enuclea i temi portanti in cui il motivo dell’Avvento si affianca al mistero dell’incarnazione, secondo i canoni classici dell’innografia di Ambrogio, fino a cogliere le evidenti dissonanze di alcuni inni dalla matrice ambrosiana, causate dalle interpolazioni cui furono soggette successivamente alcune di queste composizioni.
A confermare non soltanto l’impronta multidisciplinare, ma anche l’apertura al presente e alla contemporaneità, la riflessione di Raffaele Di Zenzo su Mark Twain e la Venere capitolina, Da Roma a Washington: viaggio nel panorama artistico universale, il ricordo di Riccardo Renzi a Cento anni dalla morte di Kafka. Tra metamorfosi e distorsioni narratologiche rispecchiate nello spazio temporale, l’articolo di Davide Passamonti su Nascita, crisi e futuro possibile per il Welfare State. Ancora da segnalare, oltre alla consueta rubrica di recensioni, i due ‘asterischi’ di Francesco D’Episcopo, altra presenza storica sulla rivista, Ma quale musica?, una riflessione amara sui tempi presenti, inquinati da un vuoto culturale generalizzato, cui si affianca una pseudo civiltà dell’apparenza e del trionfo ad ogni costo le cui conseguenze ricadono su espressioni ‘nobili’ quali la musica, degradata a deliranti spettacoli di massa, o sulle pratiche agonistiche, come lo sport, inquinato da interessi economici e anch’esso destituito dai nobili fini da cui deriva. Per concludere l’altro asterisco Mega-concerti, ancora un’amara riflessione sul triste spettacolo che arene, stadi e circhi massimi, ricolmi di sconfinate folle plaudenti, offrono, con risultati speculari alla crisi di identità che attraversa la nostra società”
Mi si consenta ora di condividere con voi un ricordo personale che spiega il forte legame, intellettuale, culturale e umano che mi ha sempre legata a questa rivista: erano i primi anni Ottanta del secolo scorso, e la rivista muoveva orgogliosamente i primi passi, con risultati positivi e presenze significative sulle sue pagine (da Aurelio Benevento a Ugo Piscopo a Carlo di Lieto a Francesco D’Episcopo, per citarne solo alcuni). E proprio intorno a quegli anni il prof. Mario Santoro, fondatore e direttore di “Esperienze letterarie”, mi comunicò il progetto di istituire sulla sua rivista uno spazio dedicato alle recensione, numero per numero, delle riviste di italianistica più significative sulla scena culturale nazionale e internazionale, affidando a me il privilegio di suggerirne una. Ebbene in quella occasione, senza alcuna esitazione, indicai “Riscontri” che fu da me, e per anni, puntualmente recensita e presente sulle pagine di “Esperienze letterarie”: era il mio tributo personale all’encomiabile lavoro svolto dal suo fondatore che aveva dato vita, spesso senza aiuti né sostegni, a una rivista che fu, sicuramente, e nei fatti, orgoglio di questo territorio, una rivista che rilanciava la validità di una grande tradizione culturale, e che a partire dai nostri “Grandi Irpini” andava recuperata e difesa.
Mi fa piacere ora richiamare solo alcuni punti trattati nel mio intervento, illustrando i motivi che mi hanno spinta a puntare la mia attenzione sulle donne del Rinascimento, e proprio, paradossalmente, attraverso una figura maschile, per tanti aspetti, e come vedremo, esemplare, Carlo Gesualdo, principe del tardo rinascimento meridionale, da me assunto a snodo cruciale di un’epoca, in riferimento a quel Rinascimento inquieto, per parafrasare il titolo di un noto libro di Raimondi, segnato dalle stesse inquietudini che caratterizzano l’”armonica disarmonia”, della musica di Gesualdo, e dell’età che fu sua. Un’epoca sicuramente controversa, ricca di chiaroscuri, che rinvia a una crisi, a una tensione irrisolta e che interessa una stagione lunga che va, grosso modo, dall’incoronazione del Petrarca (1341) alla morte di Bacone (1626). Ma in questo vasto spazio temporale, che si suole indicare col termine di ‘Rinascimento’, sono presenti anche elementi che contrastano di fatto la grande linea dell’equilibro e dell’armonia, per cui è sembrato lecito parlare di Controrinascimento, e il manierismo ne fa parte a pieno titolo: si tratta di quella parte divergente del Rinascimento fondata sull’irrazionalismo, sull’esoterismo, sulla deformazione delle forme, fino alla melanconia, all’intimismo, alla malattia.
Il mio intervento ha preso l’abbrivio proprio da questa consapevolezza, che mi ha spinto a privilegiare, dietro e intorno alle vicende di Gesualdo, su cui tanto proficuamente ha lavorato Annibale Cogliano, tutto l’ambiente che gravita intorno alla sua figura, un personaggio sicuramente controverso, per secoli conosciuto solo per l’efferata vicenda del duplice omicidio (quello della moglie adultera Maria d’Avalos e del suo amante Fabrizio Carafa); un episodio che coinvolge, l’universo femminile in tutti gli aspetti della sua rappresentatività umana e sociale: da Maria d’Avalos a Eleonora d’Este, alle tante figure femminili, popolane e streghe, che brulicano nell’universo pubblico e privato del principe madrigalista.
E proprio l’episodio del delitto, ben ricostruito da Annibale Cogliano, e legittimato a livello giuridico, restituisce specularmene l’immagine di una cultura e di una mentalità diffusa, dominata da un immaginario esclusivamente maschile, in un’epoca in cui il casato e la sua perpetuazione costituiscono valori esclusivi e quasi ossessivi, che penalizzano soprattutto la donna, e la relegano in uno stato di disagio, di perpetua sofferenza, fino, appunto, alla malattia, che esplode nelle forme sconvolgenti della malinconia, dell’isteria, rasentando in alcuni casi la follia.
E qui è emersa una galleria di figure femminili, particolarmente interessanti, appartenenti a ceti e classi sociali diverse, ma per certi aspetti segnate da destini comuni. E proprio Maria d’Avalos ci è sembrata la figura più idonea ad aprire questa inquietante rassegna di figure femminili che si muovono nell’universo di casa Gesualdo: Maria d’Avalos, vedova per la seconda volta, a meno di vent’anni, e già madre di due figli, perduti in tenera età, obbligata dal padre, in dissesto finanziario, al terzo matrimonio. A poco più di un anno di distanza dall’assassinio di Maria D’Avalos, colta in fragrante delicto col suo amante Fabrizio Carafa, il cardinale Alfonso Gesualdo, si apprestava a preparare il matrimonio per suo nipote Carlo Gesualdo, il principe madrigalista, con una rampolla di casa d’Este, Eleonora. Ma anche a lei fu riservata la stessa sorte di tante donne aristocratiche, vittime di matrimoni negozio ai quali non era possibile opporsi, spinte in ruoli subalterni e travolte dalla ferrea logica del casato, dei sessi, del potere. La malattia di Leonora, esplosa negli anni del suo soggiorno nel feudo di Gesualdo, e prima ancora quella di Carlo, legata alla nota vicenda del maleficio, su cui ha tanto lavorato Annibale Cogliano, si collegano al clima che, tra superstizione e magia, aleggiava in casa Gesualdo. E qui entra in scena un’altra tipologia di donne – popolane e streghe- che attraversano in qualche modo la vita del principe madrigalista. In realtà l’ombra dell’irrazionale, al di là dall’episodio del maleficio, sarà presente ancora in casa Gesualdo, costantemente affollata da maghi e istrioni, nella lunga ed estenuante ‘malattia’ di Leonora che farà accorrere al suo capezzale stregoni, preti esorcisti e medici impotenti. ‘Malattia’ dai sintomi sconvolgenti, incompresi dalla medicina ufficiale, sospesa tra vecchi e nuovi saperi. La sofferenza della psiche semplicemente non ha statuto autonomo nella donna; meglio, non esiste: o è di natura organica, o è di natura occulta, come ben a ragione ha osservato Cogliano. Inevitabile dunque il ricorso agli esorcismi che si affiancano ai salassi nel tentativo di eliminare la bile nera in eccesso, ritenuta causa dell’umor melanconico. La malattia di Leonora, successiva alla guarigione del marito, mette in gioco disagi, frustrazioni, conflitti interiori. Leonora, lontana dalla splendida corte di Ferrara, esiliata nei feudi del suo signore, visse drammaticamente tutte le contraddizioni di un mondo aristocratico in crisi, vittima di un potere laico pronto a sopprimere chiunque avesse osato attentare alle regole delle classi, dei sessi, del potere. Il disagio, la sofferenza mentale, le tensioni accumulate, i conflitti interiori, la morale del casato, furono all’origine di quell’umor melanconico che più volte l’aveva spinta quasi “in condition di morte”. Parliamo indubbiamente di una condizione storica che si ripete anche in altri ambienti di corte, in altre donne vittime della stessa, crudele, logica del casato.
E tuttavia a compensare questa drammatica condizione di violenza e di esclusione, sarà proprio il linguaggio lirico. E a farne fede il decisivo processo di sublimazione compiuto dall’immaginario poetico, in tutto l’arco del ’500, con una produzione che, muovendo da Petrarca, alimentò, nel corso del secolo, e anche oltre, un nutrito filone di liriche, con esiti ‘al femminile’, anche degni di rilievo. Pensiamo ad esempio ai casi emblematici di Veronica Franco, di Gaspara Stampa, e, tra i molti altri, di Isabella Morra, divenuta nell’immaginario storico e letterario, il simbolo di vittima del potere familiare”
Montanile si sofferma “sul divario insanabile tra la triste condizione della donna negli anni del rinascimento e l’immagine trasmessa dalla tradizione lirica, attraverso il recupero di simboli e costruzioni figurative, proprie del Petrarca.
Nel saggio Temi, tópoi, stereotipi, edito nel volume einaudiano Le forme del testo, del 1984, Giovanni Pozzi ha colto nella ricorrenza di alcuni figuranti metaforici, associati all’uso obbligato di tre colori (l’oro per il giallo, la neve o il latte per il bianco, la rosa per il rosso) la genesi, di un sistema di rappresentazione da cui deriva, nella tradizione lirica, la nascita del topos. Pozzi definisce in questi termini il costituirsi, nella lirica alta, di un preciso clichè estetico, assicurato dal forte rilievo di alcuni attributi fisici (i capelli, gli occhi, le guance, la bocca), descritti di volta in volta nella prospettiva del canone breve (dato dallo splendore-colore dei particolari) e in quella del canone lungo che combina la qualità primaria della luce con l’armonia delle forme-proporzioni.
L’idea del bello nasce così da un criterio selettivo di scelta ispirato più che all’uso di una «semplice sineddoche o di una litote antomastica», all’effetto particolare di colore-splendore che rinvia, secondo Pozzi, alla qualità primaria della luce in cui si concentrava, fin dal Medioevo, il concetto stesso del Bello. Una impalcatura poetica che sancirà la nascita di un modello lirico, con immagini rarefatte nelle quali tutta la tradizione, da Petrarca in poi, aveva condensato il simbolo stesso della bellezza muliebre. Un modello peraltro avvalorato in sede teorica dall’autorità del Bembo, che ha attraversato, indenne, i secoli, nonostante le mani dei tanti petrarchisti che ne hanno fatto largo uso, perché ritenuto, appunto, un modello già di per sè perfetto, chiuso negli spazi invalicabili delle forme metriche, così raffinate da divenire esse stesse contenuti lirici. E proprio Maria d’Avalos, con la sua tragica storia, di amore e morte, sarà la prima a fornire elementi per un lungo processo di sublimazione, alimentando una intera tradizione poetica che da Ascanio Pignatelli, duca di Bisaccia (a Giulio Cortese, a Scipione Teodoro a Giulio Cesare Capaccio) giungerà fino al Tasso e al Marino (del Tasso ricordiamo i tre sonetti In morte di due nobilissimi amanti e il madrigale 294 Ferro in ferir pietoso).
Da questa tipologia di donne restano fuori, ovviamente, le cosiddette ‘donne di potere’- tra le quali è appena il caso di ricordare Vittoria Colonna, il ruolo di primo piano da lei ricoperto, attraverso importanti sodalizi personali e letterari, nel cenacolo ischitano, o l’attività di Elisabetta, duchesssa di Urbino, e ancora di Giulia Gonzaga che fece del monastero il centro di incontri spirituali e di salotti lettterari: si tratta di una schiera di donne, emerse da pochi anni dall’ombra e dall’oblio, grazie ad alcuni orientamenti della ricerca ispirati agli studi ‘di genere’, che hanno consentito di rivalutare i monasteri femminili come ulteriore spazio di vita e di formazione, luoghi di ricovero, poi divenuti centri di cultura che, analizzati da prospettive diverse, o interrogati nella prospettiva del gender, hanno ancora tanto da dire alla ricerca storica. Al di là di queste isole felici – sprazzi di luce che illuminano una ben circoscritta categoria di donne, donne che, in ogni caso, si muovono in ambiti chiusi (la corte o il convento) – c’è da osservare che solo a questa categoria di donne sono concesse, e proprio in virtù del loro status, possibilità di emancipazione e di riscatto: parliamo in genere di nobili o di aristocratiche, protagoniste attive della società di corte, per le quali si aprono spazi nuovi di gestione del potere sociale, non solo in virtù del loro status e del ruolo acquisito all’interno di essa, ma per la loro capacità di azione nella sfera pubblica, che le portano ad intrecciare relazioni in forme anche autonome, ma sempre riconducibili all’ambito delle strategie familiari. Di qui la difficoltà di analizzare il femminile come dimensione unitaria, e arduo qualsiasi tentativo di categorizzare una condizione che non consente interpretazioni unitarie o univoche. Al di là di alcuni punti fermi restano alcune condizioni incontrovertibili di limitazione che gettano un’ombra sulla dimensione del femminile e inficiano le rivendicazioni, per quanto audaci, espresse da alcune di esse: tra queste limitazioni che definivano una condizione di incapacità e di assoluta inferiorità: l’esclusione delle donne da mestieri e incarichi, reputati di esclusivo appannaggio maschile, la pratica consolidata di matrimoni negozio ai quali non era possibile opporsi, le leggi di successione, assolutamente sfavorevoli e punitive nei confronti delle donne. La donna poteva essere proprietaria, ma non giudice né avvocata, né poteva intentare processi, non poteva accedere all’istruzione universitaria, ad eccezione delle donne nobili e aristocratiche alle quali era concessa la guida di un precettore, ancora poteva essere maestra di scuola, ma le era ordinariamente interdetta la sfera della politica, ad esclusione di alcune regine a pieno titolo e di alcune principesse alle quali erano affidati incarichi di governo. E per finire, non poteva essere ordinata sacerdotessa, ma poteva diventar santa. Completamente diversa la realtà delle contadine e delle donne povere, vere e proprie ombre ai margini della società e della storia. Sono queste le luci e le molte ombre che rendono controversa la nozione di rinascimento al ‘femminile’: un secolo in cui entrano in gioco, soprattutto dopo la stretta post tridentina, forze divergenti che non consentono interpretazioni unitarie o univoche.
Certo un universo femminile complesso, abitato da aristocratiche, popolane o streghe, ma sicuramente speculare a una cultura e a una mentalità diffuse, espressione di una condizione che, mutate, naturalmente, le condizioni storiche, e svanite le streghe, si ripeterà ancora per altri secoli a venire. Molto più tardi, sempre a Napoli, ma in pieno clima illuminista, Giuseppe Maria Galanti, allievo del Genovesi (nel Saggio intorno alla condizione delle donne nello stato civile, ed alle leggi coniugali, 1780, cui seguirono sei anni dopo le Osservazioni sopra la nuova legge abolitiva de’ delitti di stupro) ascriverà a dato di cultura il rispetto per i diritti delle donne, riconoscendo semmai ai popoli europei il merito di essere stati «molto discreti riguardo alle nostre donne, dopo di essere stati verso di esse barbari e brutali». Galanti, come sappiamo, da buon riformista, accoglie con favore la soppressione dell’istituto del matrimonio riparatore al delitto di stupro, salvo poi a veicolare in chiave di sentimento, la sua difesa illuministica dei diritti delle donne, espressa, appunto, nella prospettiva della lotta ai pregiudizi e al sopruso: «Le idee di decoro – scriveva – di vizio, di virtù, i doveri dello stato civile, le convenienze della società sono in rapporto della maniera come sono educate le femmine, e come sono trattate. Dove esse sono schiave, i costumi sono sempre corrotti».”