E’ Donatella De Bartolomeis, naturopata specializzata in Kinesiologia emozionale, con un passato da editrice, a ricordare con commozione l’attore e regista Alvaro Piccardi ,scomparso nei giorni scorsi, con cui aveva collaborato a numerosi progetti, a partire dalla pubblicazione del suo libro “La Sonata a Kreutzer. Versione Teatrale di Tolstoj”. Un ricordo carico di commozione_ “Ciao Maestro. Con te se ne va la magia della mia infanzia. Non una magia fatta di bacchette e fatine: una magia ruvida, odorosa di salmastro e mistero. La magia di vele spiegate al vento, di carte del tesoro stropicciate tra le mani, di avventure sporche e meravigliose. Con te, se ne va il sogno di partire su una nave pirata. Di incontrare Silver. Del pizzico di Ben Gunn sulla guancia e di un pezzo di formaggio. Con te vanno via i 15 uomini sulla cassa del morto e una bottiglia Rum. Per me oggi è Jim che va via, per un nuovo viaggio, una nuova avventura. Sei tu che mi hai trattato sempre da amica.
Ricordo quella cena con gli amici. Si parlava di personaggi famosi, di chi avremmo voluto conoscere, magari vivere con loro una grande avventura. Io dissi il tuo nome. Dissi: “Alvaro Piccardi.” E loro risero.
Risero con l’affetto che solo gli amici possono permettersi, ma risero. Di me, del mio cuore infantile, dei miei sogni da ragazza che ancora crede che le storie possano cambiare il mondo.
E poi, come uno di quei colpi di scena che nemmeno un bravo scrittore osa mettere su carta… arrivò la tua telefonata. Una settimana dopo. Sul pullman. Tornavo da Roma. Pensai fosse uno scherzo.
“E io sarei infantile?” mi dissi, scuotendo la testa. “E questi cos’è che fanno? I teatrini telefonici?”
Finsi di non capire. Ma la verità è che non avevo capito davvero. Ti costrinsi a chiamarmi tre volte. Tre.
Alla terza, con quella voce roca, carica di anni e palcoscenici, dicesti: “Ma ha capito chi sono? Sono Alvaro Piccardi. Vorrei pubblicare il mio libro La Sonata a Kreutzer. Versione teatrale di Leone Tolstoj. Con Il Papavero.”
E io ancora niente. Ancora convinta di essere al centro di un gioco. Ti diedi appuntamento a Tiburtina.
Quando ti vidi arrivare, avrei voluto sparire sotto la stazione, scavare una buca e sparire. Per la freddezza con cui ti avevo trattato. Per l’irriverenza. Riuscii solo a dire: “Maestro, conoscerla è un onore.”
Tu sorridesti. Anzi, nascondesti il riso dietro un sorriso. Che è diverso.
Poi venne il secondo libro e le sere al Globe Theatre.
Ci vedevamo poco, e quando lo facevamo sembrava passata un’era geologica. Ogni incontro era pieno di racconti, di flashback, di ricordi tuoi che non erano miei ma che diventavano anche i miei. Mi parlavi degli esordi, dei sogni. Dei sogni che, malgrado tutto, continuavi ad avere. Perché non bastava tutto quello che avevi già fatto, scritto, diretto, interpretato. Tu volevi ancora. Volevi ancora sognare.
L’ultima volta che ti ho visto eri a casa tua. Con me c’era un cornista. Eri felice. Felice di ricevere visite.
Fu lì che compresi una verità banale, ma tagliente come una lama: che il tempo corre e taglia.
Taglia le relazioni. Taglia le presenze. Taglia le amicizie. E quando si invecchia, i più se ne vanno.
E i giovani sono troppo indaffarati per ricordarsi di loro. Dei Maestri. Dei tesori viventi.
Mi regalasti due CD. Due spettacoli teatrali. Mi chiedesti di ristampare il libro, con allegato il video della trasposizione scenica, mi strappasti una promessa. Cercai di spiegarti che non si poteva. Che c’erano le autorizzazioni. I marchi. Le regole. Che quei video anche se vedevano te come protagonista non erano più i tuoi, né i miei. Ma a te non interessava. Tu volevi solo che l’opera vivesse. Ed io, con la mia ossessione di fare le cose per bene, finivo per ostacolare ciò che volevi: continuare a lasciare una traccia.
All’improvviso ti interrompevi. Lo sguardo ti cadeva nel vuoto, oltre le pareti, oltre il tempo, forse oltre quell’orizzonte che avevi già attraversato su nave pirata. Capivo che una parte di te era già altrove. E io, senza volerlo, stavo contribuendo al silenzio che si stava portando via i tuoi sogni.
Una verità la conoscevamo entrambi, ma non l’abbiamo mai detta. Un’amara, vergognosa verità. Che quando si invecchia si perde la memoria. E che i giovani perdono Memoria. Che ci si spegne due volte: la prima quando gli altri smettono di ricordarti. Tu, che eri e sei un’icona. Tu, che eri un baule colmo d’oro, di talento e di esperienza. Tu, come tanti, sei stato costretto a fare i conti con un popolo che dimentica. Che sostituisce il vecchio con il nuovo. Come fosse un oggetto. Ma il vecchio non è una cosa. Il vecchio è una persona. Un tesoro prezioso da custodire gelosamente. Tu eri uno scrigno, il mio mito il mio Jim.
In questi ultimi anni ti ho pensato spesso. Il telefono che non suonava più era più eloquente di qualunque giornale. Non diceva che ti eri arreso. Diceva che eri stanco. Diceva che eri rimasto solo. Diceva che la tua voce, che una volta faceva tremare le quinte, adesso si perdeva nei vuoti delle stanze. E ora che te ne sei andato, sento un buco dentro. Non solo per quello che eri. Ma per quello che rappresentavi. Per il coraggio del bambino-pirata che avevi dentro. Per la dignità con cui hai saputo invecchiare, anche nel disinteresse generale. Perché tu non ti sei mai arreso. Nemmeno quando la tua voce si confondeva. Nemmeno quando gli altri smettevano di ascoltare.
Ciao Alvaro. Ciao Maestro. Fai buon viaggio. Le vele sono alzate. Il tesoro, stavolta, sei tu”.