Di Don Vitaliano Della Sala
È interessante osservare che, come dopo una partita di calcio diventiamo tutti allenatori, dopo questo primo conclave social siamo diventati tutti vaticanisti! E anche se sembra esserci credibilità e coerenza nelle parole chiare, semplici, incisive, con le quali papa Leone XIV ha aperto il suo pontificato, ora occorre aspettare che alle parole seguano i gesti “nuovi” del nuovo papa.
Certo c’è la biografia di papa Prevost; dispiacerà al presidente Trump, ma è un “meticcio” statunitense con origini – si dice! – francesi, spagnole e italiane; è un frate degli agostiniani, dei quali è stato anche priore generale; è stato vescovo in Perù, e quindi pastore “con l’odore delle pecore” di una Chiesa missionaria; infine ha lavorato per qualche anno in una importante Congregazione vaticana, quella dove si “fabbricano” i vescovi, e quindi conosce gli ingranaggi arrugginiti della Curia romana. Anche la scelta del nome ha dato un segnale: papa Leone Magno fermò Attila, Leone XIII – a cavallo del XIX e XX secolo – è il papa dell’enciclica Rerum Novarum, sui diritti dei lavoratori, e di quella, l’unica, sugli ancora giovani Stati Uniti d’America. L’elezione di papa Leone ha spiazzato tutti i pronostici. Ma la storia della Chiesa ci insegna che per una volta che si sceglie un “papa buono” che “puzza di pecora” e di Spirito Santo, ne possono poi venir fuori altri che invece “puzzano” di interessi personali o di cordata, di troppa teologia e di poca pastoralità, di autoritarismo e di poca democraticità. E il volto della Chiesa, la percezione che fedeli e non fedeli hanno di essa, non può cambiare dopo ogni conclave come se la Chiesa fosse l’espressione di questa o quella cordata! Per dare risposta alle tante domande sul nuovo papa, basterebbe rendere pubbliche e trasparenti le discussioni del pre-conclave, quelle del conclave e i motivi che hanno portato i cardinali ad eleggere Robert Francis Prevost. Forse non lo sapremo mai e potremo solo intuirlo. Invece sarebbe ora di aprire, di spalancare le porte e le finestre del conclave, per far sapere a tutta la Chiesa il perché di certe scelte. Si giocherebbe finalmente a carte scoperte, e sarebbe un bene per tutti, alla faccia degli intrighi e dei retroscena. Nel lontano 1978, con la nomina a Sommo Pontefice del polacco Karol Wojtyla, la Chiesa cattolica, con una mossa strategica da vera superpotenza mondiale, scelse un papa che avrebbe dovuto dare una spallata definitiva agli illiberali e agonizzanti regimi dell’Est europeo, come poi è realmente avvenuto. Se è vero questo, vuol dire che con l’ultimo conclave il Collegio dei cardinali ha scelto, forse, di fare lo stesso con gli Stati Uniti di Tramp?
Una cosa è certa: Trump non è più l’unico statunitense importante; ora, a Roma ce n’è uno che avrà gioco facile a diventare più importante di lui, basterà “solo” che, come il suo predecessore, anche se con parole e gesti diversi, annunzierà e testimonierà il Vangelo, non di Prevost, né di Bergoglio, e nemmeno di Trump e Vance, ma il Vangelo di Gesù Cristo.
Ma non bisogna dimenticare che veri cambiamenti, per ottenere qualche risultato concreto nella Chiesa, devono avere come protagonista il popolo, la “base”; quando sono i vertici a proporli, o peggio a imporli, spesso diventano anche pericolosi. Forse in piazza San Pietro o in televisione appare evidente il cambiamento. Non così in molte parrocchie e diocesi, dove è triste vedere vescovi e sacerdoti, che spesso sono disumani e per nulla cristiani nel trattare fedeli di altre confessioni cristiane o religioni, divorziati, separati, gay e laici.
Papa Leone sa bene che nel Vangelo di Luca, c’è una parabola che racconta bene la Chiesa che papa Francesco sognava. In essa Gesù paragona il Regno di Dio, quindi la Chiesa, a un granello di senape, il più piccolo tra i semi, che però diventa un arbusto frondoso, “e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra”: paradigma della Chiesa-altra che sempre più cattolici sognano e si impegnano a costruire. Una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio su nessuno, una Chiesa degli esclusi e non dell’esclusione. Poi Gesù chiude le anti-beatitudini con un arrabbiato “guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi”: se ci si sforza di essere un vero profeta, un autentico discepolo di Cristo, si finisce immancabilmente per essere contrastati dal sistema di potere; quando questo ti ossequia, ti loda, ti applaude, vuol dire che, forse, non sei un buon discepolo, probabilmente hai tradito il messaggio di Gesù, troppo scomodo per essere applaudito da tutti, soprattutto dai potenti. Al contrario, quando il potere “vestito di umana sembianza” (F. de Andrè), ti osteggia, ti perseguita, ti zittisce, è allora che bisogna rallegrarsi, perché sicuri di stare dalla parte giusta.
Papa Francesco è stato un profeta, ha avviato tanti processi di rinnovamento nella Chiesa che ora bisognerà portare avanti, ha fatto sognare a tanti una Chiesa-altra che ora dobbiamo sforzarci di cominciare a costruire. Il cardinale Prevost era uno dei delfini di papa Francesco che gli aveva affidato nientemeno che la Congregazione vaticana dei vescovi, essenziale per portare avanti quella primavera della Chiesa iniziata con il Concilio Vaticano II. L’elezione di Leone XIV è forse un’altra delle battaglie vinte da papa Francesco dopo la sua morte, in silenzio, da quel politico consumato qual era. Ora c’è da chiedersi se questo pontificato sarà la continuazione di una vera apertura della Chiesa al mondo o se gli interessi di potere, di denaro e di influenza, che così fortemente, in passato hanno condizionato la politica della Chiesa, riprenderanno ad essere i veri protagonisti. Insomma: il sogno di una Chiesa-altra continuerà, diventando sempre più realtà, resterà un sogno o si trasformerà in incubo?
Allora, buon lavoro, papa Leone. In tante e in tanti siamo pronti a darti una mano!