Di Nicola E. Mesolella.
Un omaggio allo “scultore degli ultimi”. Tre anni fa, in punta di piedi, così come aveva vissuto, se ne andava Giuseppe Martignetti, l’artista irpino che ha celebrato come pochi altri l’epopea delle grandi migrazioni del Novecento, da quella degli italiani spinti a cercare lavoro in altre nazioni a quelle delle donne e degli uomini di altri Paesi in fuga dalla fame, dalle carestie e dalle guerre. Un messaggio di pace, umanità e spirito di fraternità che ha toccato il punto forse più alto nelle opere della “Via Crucis” ancora visibili lungo le strade del suo amato paese natale: Montefalcione.
Grandi sculture di forte impatto che attirano studiosi e storici dell’arte e hanno ispirato gli organizzatori dell’incontro che si terrà sabato 30 novembre (dalle 17) nella chiesa della Confraternita della Buona Morte (via Cardinale Dell’Olio, a pochi passi dalla sede del Comune).
Intitolato “Giuseppe Martignetti – Lungo i sentieri del sacro”, il convegno vedrà la partecipazione di Fausto Baldassarre (filosofo), Annamaria Cafazzo (docente), Maria Anna Martignetti (architetto), Giovanna Nicodemi (scrittrice) – moderatore il sociologo Paolo Materazzo, introduzione a cura di Mario Baldassarre –, tra gli altri interventi previsti anche quelli di Nunziante de Maio (Associazione della stampa), Adriano Palmieri (Movimento cristiano lavoratori), il sindaco Angelo Antonio D’Agostino e l’assessore alla Cultura Emanuela Pericolo.
Appartato e umile come sanno essere solo i grandi, l’artista è stato pure uno stimato docente (d’arte) stimato dai colleghi e amato dai suoi studenti. Il convegno, dunque, sarà l’occasione per ricordare anche il professore, l’architetto, l’uomo e quindi il padre (ne parlerà la figlia Maria Anna). Ma il punto di partenza saranno le magnifiche opere a tema religioso da lui realizzate per quella “Via Crucis” che nonostante la scarsa manutenzione e la mancanza di un’adeguata illuminazione è ancora considerata dagli esperti una delle più suggestive del Meridione. Sculture a grandezza naturale che in virtù della particolare tecnica usata colpiscono l’osservatore, al pari delle altre sue imponenti opere esposte in Gran Bretagna (dedicata agli emigranti che dal Sud si spostarono altrove) o in Basilicata (a Montalbano Jonico c’è l’omaggio ai bambini e alle madri che giacciono sul fondo del Mediterraneo dentro le barche della disperazione).
Il coraggio di chi affronta l’estremo pericolo pur di provare a salvare i figli, la forza di chi sa rialzarsi, la dignità di chi non si piega alla malvagità di chi si gira dall’altra parte: nel lavoro di Martignetti c’è tutto questo e molto altro, riflesso della sua umanissima e metafisica weltanschauung, il cui segno archetipale è reso perfettamente dai materiali scelti, ovvero dallo straordinario uso del cemento per la realizzazione delle vivide e ieratiche figure.
Un linguaggio che è fatto di tagli profondi che si mostrano come ombre riflesse di altre ferite, di sfaccettature e spigoli che appaiono come prismatici rimandi all’incessante battere del martello delle ingiustizie. Un lessico aspro e poetico composto da lineamenti interrotti e profili spezzati, simboliche e dolenti incompiutezze che rimandano ai sempre troppo accidentati percorsi della vita, soprattutto quelle di chi resta costretto ai margini, di chi annaspa nel buio. Passi e passaggi accennati e dolorosi al tempo stesso, taglienti e traumatici proprio come lo sono le dinamiche più profonde e perturbanti. Una narrazione che non può non essere straziante e romantica al contempo.
Alla luce dei lampioni, le figure umane si affacciano sul bordo delle strade come apparizioni, rigidi quanto sinuosi fantasmi, lontani e tuttavia ancora percepibili ai sensi. Immagini che sembra vogliano bisbigliarci una raccomandazione che vale per i credenti come per i laici: la fondamentale necessità di saper guardare oltre la superficie delle cose e dei pensieri. E sussurrare una frase che un giorno forse qualcuno inciderà lì sotto: non dimenticate.
Evocatrici della trascendente sacralità dei mondi invisibili, le metafisiche sculture del maestro irpino – che giustamente sono considerate uniche nel loro genere nel panorama dell’arte contemporanea italiana – hanno radici spirituali che corrono sotto il terreno della memoria e dunque, in qualche modo, accompagnano silenziose i nostri passi come anime vaganti di quel perenne purgatorio universale di cui non si può evitare di far parte.
Infine, è d’uopo notare come il profondo legame di Martignetti con la sua terra si riverberi proprio in quelle scultoree “ferite” che segnano le sue atemporali figure – veri e propri “vuoti materici” che racchiudono lo spazio dell’altrove in gusci di pensiero – specchiando ulteriori ferite, quelle provocate dal grande terremoto nelle menti e nei cuori dei suoi abitanti; così come la materia usata per le opere, il cemento, si sarebbe poi fissato nel loro paesaggio interiore.
Già negli anni scorsi è stato fatto notare che l’uso creativo del calcestruzzo e l’originalità del segno pongono Martignetti nel ristretto novero degli artisti che nel corso della seconda metà del Novecento hanno fatto la stessa scelta e, dunque, lo hanno in parte ispirato. Pensiamo a Giuseppe Uncini o a Mario Schifano, o agli esponenti dell’Arte povera come Alighiero Boetti, Gilberto Zorio e Giovanni Anselmo. Ma vengono in mente anche altri (ovviamente differenti) esperimenti, dal cosiddetto “ciclo dei Cretti” (e il suo celeberrimo “sudario di cemento”) di Alberto Burri o le opere della scultrice e designer britannica Dame Rachel Whiteread. Tutti inevitabilmente “illuminati” dagli orizzonti aperti illo tempore da due giganti dell’architettura: Le Corbusier e Louis Kahn, la cui influenza sul mondo dell’arte è stata ben studiata e approfondita da Anna Rosellini in “Valori primordiali e ideologici della materia, da Uncini a LeWitt.
Sculture in calcestruzzo dal Novecento ad oggi” (scritto con Roberto Gargiani), e “Calchi di spazio – Mnemosine e rovine”, entrambi editi da Aracne editrice. E proprio i rapporti tra Picasso e Le Corbusier – dal béton brut di Marsiglia sino alle tecniche utilizzate per le sculture realizzate con Carl Nesjar (e la sua celebre “Betogravure”) – hanno mostrato come le tecniche usate sui cantieri della costruzione abbiano costituito l’humus concettuale per uno spazio comune tra l’architettura e la scultura degli anni Cinquanta e Sessanta (senza confondere le specificità) sino a produrre quella che è stata definita dalla stessa studiosa «una sintesi delle arti a vocazione tecnica».
Un legame affascinante e foriero di emozioni, quello tra gli artisti e la materia che prediligono, che Martignetti ben conosceva e, soprattutto, praticava con risultati che oggi possono fare dell’Irpinia, e nello specifico della sua Montefalcione, una nuova tappa degli itinerari culturali di maggior rilievo. Sempre che qualcuno si decida a prendersi cura dello straordinario lascito del maestro alla sua terra e si attivi, con determinazione e pragmatismo, così da poter aggiungere il nome Montefalcione alle mappe dell’arte contemporanea italiana ed europea.