Confessa di essere ancora “un attore imbarazzato di guardare se stesso. Nel montaggio del mio ultimo film cercavo continuamente di autosabotarmi, togliendo piu che aggiungendo”. È un fiume in piena Valerio Mastandrea in quella che definisce una seduta psicoanalitica, ospite dell’ultima giornata del Laceno d’oro, nella sala dell’Eliseo gremita in ogni ordine di posto. Ricorda, intervistato da Aldo Spiniello, Maria Vittoria Pellecchia e Sergio Sozzo, l’amico regista Claudio Caligari con cui ha esordito ne “L’odore della notte” ma ammette di aver fatto propria solo in parte la sua lezione “Ho la tendenza ad assorbire film e libri ma a dimenticarli. Quello che mi rimane, pero’, è l’autenticità di quello che vedo o leggo. Per me il significato della scena viene prima della bravura dell’attore, tutto deve essere al servizio del racconto. Claudio, pero’, non sarebbe d’accordo, direbbe che ogni genere ha delle regole da rispettare”. Confessa di non amare i film “pedagogici, la parola stessa mi sembra un ossimoro. I film non vogliono insegnare nulla, devono lasciare piena libertà di interpretarli. Non mi piace, invece, quando il regista impone allo spettatore un percorso emotivo. Un film fa quello che deve fare quando ti scopre, ti muove qualcosa dentro e ti emoziona”.
Racconta di “essersi sentito dentro il cinema allo stato brado solo con due registi, Marco Bellocchio e Abel Ferrara. Bellocchio è un regista molto analitico nella costruzione delle scene e dei personaggi ma poi il film ti arriva come emozione. Non ho mai amato il cinema intellettuale, fine a sè stesso. Con Ferrara era diverso, mi telefonava e mi dava appuntamento alle 4 di notte in piazza di Spagna per provare una scena o mi chiedeva di recarmi a Treviso per incontrare il cugino di Pasolini, Nico Naldini. Diciamo che lavorare con lui ti rigenera perché spezza la routine di questo mestiere”. Ammette di aver peccato di rigore nel primo film “Ride” mentre mi sono “lasciato più andare nel secondo “Nonostante”, presentato a Venezia, che uscirà a marzo. Dirigendo me stesso, ho sofferto, pero’, il montaggio, è stato uno psicodramma, tendevo a eliminare le scene che mostravano troppo le mie qualità”. Ammette di “parlare poco con gli attori, durante le riprese. Ma non amo e curo i miei attori perchè non amo me stesso e non mi curo come attore”.
Cita l’ultimo film di Virzì che ha finito di girare e che lo ha profondamente emozionato: “Mi chiedo sempre se una scena di forte autenticità possa arrivare con la stessa forza con cui è stata vissuta e come certi attori riescano a stare in ruoli in cui non si riconoscono. Conosco bene la fatica di un film e oggi, per accettare un ruolo, ho bisogno di personaggi che mi aiutino a tirare fuori sentimenti nuovi. Ho un approccio troppo emotivo, di pancia. Ho sofferto nel girare film nei quali non mi riconoscevo”. Ammette che “il successo non significa niente per me. Sono capitato per caso in questo mondo, ho sfruttato il talento naturale di adattarmi alle situazioni in modo estemporaneo e l’opportunità che mi davano i film di vincere le mie paure. A me basta fare un lavoro che mi piace. Ho accettato tanti film per riconoscenza o senso di colpa, oggi ho bisogno di trovare nuove cose da mangiare”.
Spiega come il cinema possa incidere più a livello più individuale che sociale “A volte mi chiedo anche io a che serva quello che faccio. Ma se penso a quello che è riuscita a realizzare Paola con il suo film, riunendo generazioni, sensibilizzando sul tema della violenza di genere, allora mi convinco che il cinema può fare cose straordinarie. Senza dimenticare quello che può suscitare in ciascuno di noi”. Sottolinea come “per il modo di lavorare, Paola è un’ostacolista di quella che era la Ddr, io sono della nazionale giamaicana di bob”. Ricorda l’amico Mattia Torre, cita l’esperienza di Buttafuori, dà atto ad artisti come Zero Calcare di raccontare le dinamiche della città come pochi, ricorda come le donne siano ancora penalizzate nel mondo del cinema a causa della minore varietà di ruoli. Chiarisce come “la coerenza non è stato un fantasma che mi ha accompagnato in maniera ossessiva, ma ho capito che non sono in grado di non essere autentico, di qui l’importanza di scegliere i film come persona e non come attore. Io resto un egocentrico timido, che desidera apparire e nascondersi in eguale misura”. Ribadisce come “Ogni film avrebbe diritto ad essere proiettato. E’ una battaglia che dovremmo fare tutti quella legata alla distribuzione”. E confessa di aver smesso di accettare gli inviti al Costanzo Show quando “ho cominciato a fare film, perchè ho capito che lì ero diventato un personaggio ma sarà sempre grato a Costanzo. Ho fatto in tempo a tornare come ospite del programma due anni prima che morisse”. Ai giovani raccomanda si essere sè stessi ma anche “di conoscere la grammatica del cinema magari per capovolgere lo sguardo dei grandi registi”. Per lui gli applausi sono carichi di emozione.