“Un’epifania cruda e abnorme, scaturita dall’esperienza di emigrazione al Nord, dall’aver toccato con mano lo sdoppiamento di tutti i luoghi e di tutti i Meridioni del Mondo ritrovati nel Mezzogiorno del Mondo, in questa America Italiana che è il Nord”. Spiega così lo scrittore Sandro Abruzzese come nasce “Meridionali si diventa”, Rogas edizioni, un saggio prezioso che riunisce articoli, contributi, scritti legati all’Irpinia e al Mezzogiorno pubblicati su blog, quotidiani e riviste tra il 2015 e il 2025, traguardo di una lunga stagione di ricerca. Dal blog «Poetarum silva» a «Le parole e le cose», «Doppiozero», da «Il lavoro culturale» a «Erodoto108» e «Osservatorio del Sud» Abruzzese si interroga su sè stesso, sulla propria identità, sul territorio in cui è nato, sul divario tra Nord e Sud del paese, tra centro e margine. “Nutro l’esigenza di arrivare all’origine – scrive nel Dialogo Immaginario con Gesualdo Bufalino che introduce la raccolta – …Come ragazzo di un Sud appenninico, rurale, devo dire che dapprima ho creduto a tutto ciò che si vede, ho proprio aderito al mondo per come era, per come veniva detto, pronunciato e declinato; poi sono emigrato nel nord Italia industriale come supplente precario. Altrove, dunque, ho scoperto gli enormi sacrifici, la solitudine, insomma il vero volto dello squilibrio su cui è stato edificato questo Paese, e quindi ho scoperto che la realtà è sempre più complessa delle idee su cui proviamo a fondarla”.
Un percorso che non può che partire dal legame con il proprio paese di origine. Poichè “Il luogo dell’identità, il primo ordine del mondo, è stato, per me, il microcosmo del paese. Un paese rurale come tanti, nell’entroterra irpino, Appennino meridionale. Le linee, i punti di fuga, i meridiani, i paralleli, tutto, a dispetto del tempo, ovunque vada, ancora riesce sorprendentemente a partire e ritornare in quella valle” Una realtà in cui centrale è sempre stato il rapporto con lo spazio, uno spazio facile da controllare, in cui era impossibile perdersi “Il paese intero risultava percorribile, esplorabile, in parte manipolabile, in un rapporto di esperienza in cui lo spazio circostante, la possibilità insita nello spazio, era la cifra fondante della nostra formazione. Vi erano meno povertà e indigenza, nessun contrasto sociale, meno stimoli e competizione, pochissime possibilità, annacquati strumenti di potere e nessuna parvenza di organizzazione criminale”. Anche se forte era all’interno del paese il pregiudizio nei confronti della campagna e dei valori di cui si faceva espressione.
Abruzzese sa bene, come sottolinea Soldati, che con i luoghi amati bisogna essere in rapporto di vicinanza e lontananza. “Bisognerebbe abbandonarli come degli esiliati, aggiungo. Solo così potremmo capire gli emarginati, lo straniero, la diversità, ed essere in grado un giorno di ambire a una patria nel rispetto del genere umano, senza
cortine di ferro né limiti invalicabili”.
Cuore dei saggi che compongono la raccolta è il concetto di duplicità del paese “Può essere, se slegato dal resto della nazione, un luogo di smarrimento, in cui la storia non fa che ripetersi incessantemente. E d’altra parte, però, quello stesso luogo – lo si scorge in Meneghello come in altri – a volte diviene un riparo contro la minaccia esterna: lo Stato, la burocrazia, la disoccupazione, l’anonimato o qualsiasi altra forma di coercizione”. Un paese pendolo, metafora delle oscillazioni del mondo globale, per scoprire che non resta estraneo, anzi finisce con l’essere schiacciato dal “processo di de-umanizzazione normativa, disciplinare e mediatica a cui siamo sottoposti, che ha prodotto indifferenza nei confronti dell’altro”.
Abruzzese parte da Cesare Pavese per spiegare la sua idea di paese, poichè Anguilla e Nuto, protagonisti de La luna e i falò, rappresentano le due diverse anime del paese, la scelta di chi parte e di chi resta “Superato il mito, il paese mostra la sua antica rete di conflittualità: il contrasto tra immobilismo e attivismo, quello tra palingenesi collettiva, privilegio, e salvezza individuale, come nella Casa in collina (1948) o in Paesi tuoi (1941),” Ma Abruzzese ci ricorda che la sfida più difficile è quella di trasformare la comunità in una società, di fare sì che ogni paese non si chiuda in sè stesso e nella resistenza a qualsiasi forma di modernità ma sia mondo. E non ha dubbi l’autore, da certi luoghi non si va mai via. “Il mio paese si trova nella valle dell’Ufita, ai margini della Campania, a due passi dalla Puglia, dal Molise e dalla Lucania. C’è una cosa che ho appreso in questa parte di Irpinia, nel bel mezzo dell’Appennino, ed è lo starsene ai margini. Magari da ciò deriva l’attrazione per tutto ciò che è confine, per ogni luogo dove si incontrano altri luoghi, fino ai li miti estremi, dove fine vuol dire ancora una volta principio. Ecco, Grottaminarda e la sua valle mi hanno insegnato a riconoscere i margini. Quello linguistico, per esempio: i suoni della vicina Puglia nella lingua dei paesi verso levante, quelli del napoletano a ponente. Oppure il margine agricolo e paesaggistico, laddove il giallo delle monocolture del grano pugliese, quasi sull’Ufita, incontra il verde della policoltura mediterranea o i castagneti, gli ulivi, i vitigni e i boschi delle alture”.
Una storia, quella di Grottaminarda e dell’Irpinia segnata dolorosamente dal sisma, che ne cambierà il destino ma finirà per inoculare, scrive l’autore, il germe della allergia collettiva al bene comune, poichè insieme alla modernità arrivavano corruzione, avidità di guadagno e individualismo “Dunque, nel dopo-sisma, insieme al mio corpo bambino, crescevano caseggiati o villette bianche, con archi, veneziane, torrette merlate, cuspidi. L’avranno fatta coi soldi del terremoto, si diceva appena spunta va un’altra casa. Non potevo certo immaginare che il cemento e il ferro, oltre alle case, stessero armando un’invincibile sistema di potere politico-clientelare tuttora vigente. Il terremoto diede il colpo di grazia alla già prostrata civiltà contadina irpina” Per spiegare che “Partire oggi non è più solo una questione di lavoro, ma anche la ricerca di un ambiente politico, sociale e culturale libero dal ricatto. In assenza di cambiamento, nel protrarsi irrisolto degli stessi problemi che avvantaggiano pochi a discapito di molti, in istituzioni assenti perché piegate a logiche antidemocratiche, è anche così che si inocula e diffonde l’idea della partenza come liberazione. A riguardo ogni ritorno, benché fugace, resta un perpetuo promemoria dell’ignobile tracotanza politica nostrana”.
L’arrivo dell’autostrada e quello della Fiat si caricano di un forte valore simbolico, sono segno di speranza di riscatto ma finiscono per diventare la cifra di uno sviluppo imposto dall’alto che illude e inganna le comunità “Così abbiamo imparato a distruggere per questuare qualche fondo pubblico. Certo, rispetto all’Irpinia contadina e artigiana, che sapeva produrre e costruire, questo continuo dissipare ha davvero il sapore di una mutazione genetica”.
L’Irpinia cambia volto e “Ai paesi inattuali corrispondono i paesi-città sradicati, sformati, bulimici, ingrossati fino a incarnare il simulacro delle città osservate alla televisione”. Costante il tema della fuga dei cervelli, dello spopolamento di cui Abruzzese dà una spiegazione più complessa “So che l’idea della partenza a volte nasce più dall’umiliazione generata dalla politica che dalla necessità, fino a incarnare il riflesso chimerico di una liberazione o di un riscatto. Credo però che il senso della libertà individuale stia in una vera e plurale comunità, in una vita locale che sia intessuta di relazioni umane”. Poichè “l’Italia che dimentica gli Appennini, le isole, fatta di grandi città che fagocitano ciecamente risorse e individui, ebbene, produce costantemente nuovi margini e continue periferie, abitate da individui soli, circondati dalla diseguaglianza, nello sradicamento”
Una riflessione che attraversa e trae alimento dalle parole di Pasquale Stiso, poeta e scrittore, a partire dal suo senso di “una pietas universale, pervase da un profondo senso comune dell’umano”, espressione della consapevolezza del valore della cultura contadina che si contrappone all’Italia di oggi con le sue forze disgregatrici “Non è necessario, sembra dire Stiso, rinunciare a quell’universo di valori, a quel rapporto spaziale e sociale, a quella vicinanza comunitaria, anzi il singolo può e deve realizzarsi compiutamente nella propria comunità, ma bisogna renderla libera da rapporti di dominio, nonché dignitosa e giusta; perché se è vero che la vita stessa è permanenza, permanere vincendo il tempo consente all’uomo di scacciare, attraverso il progresso, l’atavica angoscia”. Stiso vede le terre spopolarsi, «anche la gente / della mia terra / conserva l’antico volto / segnato d’amarezza. / È ancora senza speranza / la mia gente / d’Alta Irpinia […] la mia terra / muore / oggi definitivamente / l’ho compreso». “La sua poesia – scrive Abruzzese – è dunque costantemente attraversata dal pensiero della scomparsa dei luoghi e delle persone. Il paese vi ritorna incessantemente. L’ombra della morte poi è un’intima presenza, compagna che si insinua nel cuore”. Ma soprattutto dai suoi versi arriva un appello a non dimenticare nuovi e vecchi migranti in un villaggio globale che alza sempre di più muri “Ora che tutto il globo è scosso da incessanti e disperate migrazioni, che la perpetua diaspora interna meridionale non si è mai arrestata, e il pianeta stesso non è mai stato così ricco e disuguale, così potente e disarmato, così grande e terribile nell’annichilire l’umano per ridurlo a ingranaggio di una macchina finanziario-capitalistica onnipotente e sovranazionale, non possiamo dimenticare i volti di Stiso, perché sono ancora e sempre i nostri. E perché sulla Terra, lui ci insegna, una patria che sia veramente tale, la si costruisce nel rispetto del genere umano”. Un appello che si contrappone al degrado morale che oggi viviamo, alla disattenzione nei confronti degli ultimi “Tutto rimane, in Italia, soprattutto sotto il profilo morale e civile, quasi interamente da rifare. E non vi è altro modo per farlo che lottare, attraverso la memoria collettiva e lo studio, contro l’apoliticismo; essere per il lavoro e la salvaguardia della dignità umana, alla ricerca di un rinnovato rapporto con la natura e le altre forme di vita, è possibile solo attraverso la risocializzazione della politica”.
Un volume nel quale la letteratura incontra la geografia e la politica, la filosofia e la sociologia. Abruzzese non dimentica l’amico poeta Domenico Carrara, scomparso tragicamente “costruttore di ponti, anzi forse, più di tutto, amava mettere in relazione persone e costruire insieme agli altri” che pure, malgrado l’amore per la sua terra, denunciava il tradimento nei confronti di intere generazioni, capace come Stiso di portare il locale in una dimensione universale.
Un libro che si snoda anche attraverso attente pagine di analisi sul nuovo ruolo a cui sono chiamati paesi come Grottaminarda, a partire dalle sfide legate all’Alta Velocità, paesi che appaiono come “una rete di punti in cui la percorribilità, la visibilità, l’immediatezza, hanno preso il sopravvento sul resto. Oggi l’autostrada e i bar, le vie del commercio, assurgono a spazio in cui ci si riconosce in base a una funzione. Sono ormai gli abitanti a seguire le funzioni: frequentano i luoghi di passaggio, gli spazi commerciali, le pompe di benzina”. Per ribadire che “La paura è che la geografia urbana da sola, a meno che non si traduca in grammatica civile, non basti. E che al paese non serva soltanto comprimere lo spazio e dilatare il tempo, ma potenziare la capacità di autodeterminarsi per costruire pian piano una sua piccola idea di mondo. Altrimenti, così come in precedenza è scivolato verso l’autostrada, stavolta il rischio è che il suo corpo venga sospinto verso la nuova stazione dei treni, incarnando una replica sbiadita di vecchie e dannose vicende”. E se è vero che che il terremoto è più presente di ogni memoria e non può bastare resettare tutto per andare avanti, c’è la consapevolezza che la politica clientelare continua a rappresentare un morbo da cui liberarsi, consolidatosi proprio con la ricostruzione post-terremoto, un morbo che “finisce con il condizionare le nostre vite”.
Non è strano che il concetto di margine, da decostruire e rovesciare, torni continuamente “Magari è da questo evento limite, evento come confine, ridiscussione caotica del territorio come disordine e disarticolazione, che nasce la mia propensione a rappresentare ciò che è frontiera, attraverso la decifrazione dello spazio, che poi mi ha sospinto verso l’Italia fragile, dal Sud alle alluvioni padane, per narrare e fotografarne i paesi. L’altra faccia di questo processo interiore, dell’inconscio del terremoto, credo riguardi lo stupore continuo per tutto ciò che invece è in grado di restare, e restare intatto fino a rappresentare il trait d’union fra passato e presente, fra strati di epoche, fatto di tracce costitutive di una maglia di continuità che regge il peso e sostiene in maniera più uniforme e dialettica il cambiamento, lo sviluppo, fino ad assumere la forma di un progresso collettivo”
Non ha dubbi Abruzzese “Che un borgo, o meglio, una vallata, rinasca, dipende anche da quanto le comunità saranno in grado di unirsi per rispondere ai desideri e alle aspettative dei loro futuri abitanti”. Ed è chiaro che senza una politica di ampio respiro i luoghi più fragili sono destinati a sgretolarsi, schiacciate da spinte provenienti dall’esterno”
Bellissime le pagine in cui l’autore rivela come uno dei suoi timori più grandi sia che il terremoto possa tornare e lo condanni alla beffa di scoprirlo dalla Tv per caso ma soprattutto di non riuscire a tornare. “Si può essere altrove nella normalità ‒ sembra dire la mia paura ricorrente ‒ addirittura durante le feste o i momenti di gioia, ma non nel dolore. Non saremmo parte dei luoghi, se non ne condividessimo il dolore portando alcuni reali benefici nel breve periodo”. E se i fondi del sisma hanno portato qualche beneficio “ma, per via degli errori relativi a un modello di sviluppo parzialmente slegato dal contesto e per via delle clamorose frodi dell’Irpiniagate, ha altresì compromesso, nel lungo periodo, le chances future della regione, la quale dopo una fase espansiva dovuta agli investimenti pubblici ritorna ora a un destino che non era affatto segnato: la produzione di nuovi emigranti, lo spopolamento”
Abruzzese si sofferma anche su quanto il post-sisma e il clientelismo abnorme “abbiano trasformato definitivamente l’inconscio e la cultura dei cittadini meridionali, piegandoli all’individualismo e alla sudditanza. Ovvero è utile indagare quanto socialmente sia costato alle comunità la presenza del feudale e tribale controllo politico dei paesi (le città meriterebbero dei distinguo) da parte dei vari capi-corrente, in una lotta senza esclusione di colpi, che ha costantemente annichilito ogni possibile fermento sociale e sospinto la cittadinanza non solo verso uno stile di vita individualistico, ma anche verso la ricerca della libertà altrove, in un diverso tipo di emigrazione, prodotto da uno sradicamento spirituale oltre che materiale”. Inevitabile chiedersi cosa è stato della Questione Meridionale, così centrale per politici come Berlinguer che la consideravano il punto più importante dell’agenda politica interna nella convinzione che alla base del capitalismo c’è “lo sfruttamento della classe operaia, dall’altra la rapina di uomini e risorse delle regioni meridionali e quindi la creazione incessante di sottosviluppo, dell’arretratezza, del parassitismo”. Una Questione Meridionale poi scomparsa dal dibattito politico all’indomani della Prima Repubblica, con un Mezzogiorno sempre più abbandonato a sè stesso e con una classe dirigente incapace di governare il cambiamento.
Eppure la provincia può essere ancora salvezza da contrapporre al metropolitanismo posticcio “In un mondo dove tutto arriva e ci piove addosso dall’alto, la provincia può, per usare un titolo caro a Luca Rastello, far piovere all’insù e opporre la complessità alla superficialità, la comunità all’isolamento, la cultura del lavoro in assenza di dominio ai disegni di potenza e conquista, il mondo come dimora comune all’esclusione, il sapere come autoregolamentazione e liberazione, la responsabilità e l’autodeterminazione contro i vaneggiamenti del Pil, la cura dell’umano e del circostante all’incuria. Opporre magari la semplicità al narcisismo collettivo, opporre l’attenzione alla bassezza del cinismo, opporre il passato che consente la ricostruzione storica al presente a-storico e apolitico, opporre il nostro, tutto da ricostruire, universo morale, umanistico, popolare, alla vergognosa indifferenza della modernità”. Al tempo stesso “la provincia e la comunità del futuro necessitano di far parte di grandi case comuni europee, internazionaliste, progressiste, che estendano e amplifichino la pietas contadina contro l’angusto nazionalismo di stampo fascista”. Grande l’attenzione rivolta allo sguardo di autori che hanno raccontato il Sud e la realtà dei paesi, da Carlo Levi a Rocco Scotellaro, da Giorgio Bassani a Italo, Calvino e “Bassani è profondamente convinto che l’Italia si possa raccontare, vista la sua storica frammentarietà, solo rispettandone e indagandone le peculiarità, individuando cioè nel rigoroso particolare il germe del molteplice e variegato universo nazionale”. Saggi letterari a cui si affiancano quelli dedicati a Silvio D’Arzo e Gianmaria Testa fino ad Alexander Langer per ribadire che “la cultura democratica ha un forte senso politico, o meglio che nella nostra storia non esiste cultura senza politica”
Mette in discussione la dicotomia tra Nord e Sud del paese “Le suddette dicotomie, va detto, sono odiose non solo perché, come ha avuto modo di ricordare Paolo Rumiz, alimentano la balcanizzazione dell’Italia, ma pure perché rendono più arduo lo smascheramento dei travestimenti: e cioè il problema dello Stato neoliberista italiano, la produzione costante di margini, vuoti, periferie, isole, in cui gli individui restano soli e impotenti.” Ecco perchè “Occorre un fronte compatto per dare alle aree marginali consapevolezza, voce e spazio, reti e occasioni: si tratta di pretendere, dall’incompiuta democrazia italiana, la totale attuazione della sua Costituzione”.
Perchè il pericolo resta quello di continuare a oscillare tra l’enfasi delle radici fin quasi a determinare una visione reazionaria e l’adesione a un modello di sviluppo che appare inaffidabile, ad essere scomparso è “un discorso realmente nazionalpopolare, dunque fondato su una visione chiara e complessiva, seppur profondamente articolata, del Paese”. Poichè “l’impressione è che si racconti per frammenti, per generi, dunque in preda alle richieste dell’industria culturale, spesso con visioni estremamente parziali, se non irreali, frutto di una prospettiva urbanocentrica o al limite da periferia urbana”. A queste visioni parziali bisogna contrapporre uno sguardo differente, una resistenza capace di guardare le peculiarità ma restituire anche l’intero, combattendo ogni forma di isolamento o discriminazione e qualsiasi processo di sviluppo imposto dall’alto.