Una riflessione su pace e guerra nella cultura occidentale, che si fa strumento per sensibilizzare le coscienze. E’ lo spettacolo “Siamo qui per uccidere la guerra”, nato da uno studio dello storico Annibale Cogliano, con la drammaturgia e la regia a cura di Teselli e Ciccarelli, in scena il 14 giugno, alle 19.30, presso la Fermata Teatro ad Ariano, con la partecipazione di Nicola Euplio Vitale. Sul palco Gilda Ciccarelli, Francesco Teselli, Vincenzo Ciardullo, Maddalena Piccolo, Carlo Uva, Luigi Petrillo e Francesco Piscitelli. E con la straordinaria partecipazione di Nicola Euplio Vitale. Uno spettacolo nato dalla consapevolezza di come sia necessario combattere la guerra attraverso la cultura
“E’ uno spettacolo ambizioso – spiega Cogliano – che si interroga sull’evoluzione nella cultura occidentale dei concetti di pace e guerra, passando in rassegna letteratura, filosofia e arti visive, da Euripide a San Tommaso, da Goya a Picasso, fino al Murale della Pace di Ettore De Conciliis. Scopriamo come concetti che sono alla base di ogni democrazia erano stati teorizzati nei secoli passati da illustri pensatori. Fondamentali in questo processo di costruzione dell’idea di pace le istanze emerse all’indomani del Concilio Vaticano II. E’ evidente, se andiamo a ritroso che Gerusalemme, Atene e Roma sono le matrici del pensiero su pace e guerra della cultura occidentale. L’età tardo-antica, il Medioevo, l‘Età moderna e contemporanea affondano in quelle matrici, come le guerre coloniali, il nazionalismo aggressivo, le guerre finalizzate all’egemonia politica ed economica e, non meno, le guerre preventive e quelle ipocritamente chiamate umanitarie”. Un esempio arriva dalla storia di Caino e Abele “Il primo libro della Torah, la Genesi – prosegue Cogliano – attraverso la metafora di Caino e Abele, fa della cultura ebraica il paradigma delle teorie che si svilupperanno nei millenni a venire: la guerra è l’inevitabile sbocco dell’aggressività dell’uomo, , strutturalmente non modificabile, animale ambivalente, pendolare fra aggressività, cupidigia e negazione del prossimo da un lato, e solidarietà e necessità della ricerca della convivenza da un altro lato. In questa ambivalenza vi è la Trascendenza divina che premia e castiga”.
Grande attenzione è rivolta anche all’ideologia della guerra nella Grecia classica, “un’ideologia – scrive Cogliano – che, a differenza di quella ebraica, non si nutre di Trascendenza: il principio del possesso e della sopraffazione è tutto umano, interamente politico. È l’Iliade di Omero l’archetipo del codice di vita e di comportamento della nobiltà, che poi si estende ai ceti popolari in armi, gli opliti, ossia alla minoranza dei cittadini che costituiscono la polis. Troiani e Greci non si distinguono nel modo di fare la guerra. L’astuzia di Ulisse e la ferocia di Achille non ne minano la sostanziale identità. Sparta, Atene, Tebe, Argo, Corinto e l’aristocrazia guerriera di tutte le poleis greche hanno in comune i valori agonali della supremazia individuale e collettiva del gruppo di appartenenza, del coraggio, della forza, dell’eroismo sopraffattore, l’esaltazione della violenza e del dominio, della vendetta attraverso l’esilio, l’ostracismo. La dicotomia amico-nemico è l’asse che regola i rapporti sociali, più raramente quelli di classe: vincere ad ogni costo e annientare l’avversario con la confisca dei beni, la condanna a morte, sino al massacro degli uomini adulti e alla riduzione in schiavitù delle donne. Vincere e vendicarsi è speculare alla morale del contraccambio in positivo: onorare ogni dono e ogni servizio all’amico benefattore. È il modello dei primi tempi della lotta interna delle fazioni oligarchiche della città-stato, strutturate in eterie (oggi le chiameremmo consorterie), che si estende con la successiva crescita sociale ai ceti popolari cittadini in armi e all’intera polis contro altre poleis. Non esiste la patria: i vinti esiliati trovano rifugio presso i nemici per indurli a muovere guerra contro i loro vincitori e infliggere le stesse vessazioni subite. S’ innesca così una spirale infinita di vendette e ritorsioni; guerra e politica sono compenetrate l’una nell’altra: la città è l’esercito; il singolo cittadino è il guerriero, artigiano, commerciante, rematore di una flotta o contadino che sia, purché possa sostenere il costo dell’armatura. Questione cruciale: da dove deriva il diritto di dominio? Solo dalla forza, che, alla fine del V secolo a.c., Tucidide teorizza nelle parole attribuite agli ambasciatori ateniesi che tentano di convincere i cittadini di Melo ad accettare l’alleanza subalterna e il dominio di Atene”. L’iniziativa è promossa da La Fermata, in collaborazione con Panathlon, Rotary e Fidapa