Il paese come destino e memoria, come luogo dell’anima. E’ il punto di partenza del romanzo di Guido De Maio, presidente emerito della Corte di Cassazione, “Paesi e destini”, Delta 3 edizioni, presentato ieri al Circolo della stampa. A confrontarsi con l’autore, nel corso di un incontro promosso dall’associazione Per Aenigmata. il magistrato Gennaro Iannarone e gli avvocati Guido De Maio e Valerio De Maio. A moderare il dibattito la professoressa Roberta De Maio.
Un viaggio nella memoria, come sottolinea Iannarone, ponendo l’accento sulla forza di un libro “che si fa espressione dell’amore per il Sud di De Maio, della necessità di guardare alle proprie radici per ritrovare sé stessi e placare la malinconia. Difficile dire se lo sguardo sia carico di speranza o se a prevalere sia la malinconia, certo è che i ricordi dell’infanzia diventano strada privilegiata per guardare al futuro. Un itinerario, quello di De Maio, diviso tra Melfi in Basilicata, terra dei nonni materni, appartenenti a una famiglia di ricchi proprietari, a cui fu affidato dalla madre in tempo di guerra e l’Irpinia, da dove provenivano i genitori paterni, originari di Greci. Terre segnate dalla fatica del lavoro dei campi, che Guido comprese bene ma anche da magia e bellezza”. Ad emergere con forza le difficili condizioni di vita dei paesi, il duro lavoro dei campi, la natura aspra e ostile, la fuga dei giovani alla ricerca di un futuro migliore, la ripetitività delle vite degli abitanti in uno spazio in cui tutto sembra immobile. Per ribadire che “l’unica forma di appiattimento è quella morale, è questo l’unico ostacolo alla ricerca della felicità”
“Lungo il percorso – scrive De Maio – avverto che, nell’aria e guardando le terre che loro hanno a lungo lavorato e sofferto, qualcosa del loro esserci stato è restato e ora in qualche modo lo avverto, mi appartiene. Sento che questi paesi, questi campi sono parte di me. Non è possibile che tutto – le sofferenze, il lavoro di generazioni, gli aspri dissidi che laceravano i vincoli di sangue – sia svanito in un inconcepibile nulla”. Una magia, quella di una terra mitica come Greci, “paese fuori dalla storia” come lo definisce De Maio turbata da un numero gigantesco di pale eoliche, veri mostri che deturpano quelle campagne, un tempo bellissime. “Anche per la sua posizione geografica, che ne aveva causato la rovina – prosegue De Maio – Greci aveva una sua selvaggia bellezza. le stradine, tutte di ciottoli levigati dal passaggio del tempo e degli uomini, si aprivano negli intervalli delle case sulle balze del terreno che precipitava verso valle e su un panorama amplissimo: si vedevano in lontananza i poderi, pochi dei quali coltivati, qua e là animali al pascolo, un fiume che con il suo corso divideva parte della valle e tutt’intorno alte montagne.
Sono Guido e Valerio De Maio, figlio e nipote dell’autore a porre l’accento sul determinismo che sembra caratterizzare il titolo del libro, un determinismo che sembra legare il destino di ogni individuo al paese di appartenenza ma che può essere messo in discussione. Un libro che si interroga anche sul rapporto tra città e paese, sul valore delle radici nelle nostre esistenze, sul rischio di alienazione legato alla vita in città e dell’isolamento a cui talvolta costringe il paese.
Tante le figure che si stagliano nella narrazione, a partire da quelle delle due sorelle Geppina e Annita, in costante competizione, o dello zio fascista Vincenzo, figura contraddittoria con i suoi eccessi, una narrazione che si fa spaccato delle vicende di una famiglia costretta a fare i conti con tragedie e sofferenze, a partire dalla morte prematura del padre diventato magistrato. Le figure dei due figli perduti campeggiavano nel salone della casa paterna di Greci, dando a tutta la casa “un senso come di pauroso, di presenza di persone defunte. Io, ad esempio, cercavo di evitare di entrare in questo salone o, se proprio vi ero costretto, lo attraversavo di gran corsa prestando attenzione a che nessuno seguisse” . Fino alla questione dell’eredità del nonno da dividere tra il figlio Alfredo e i figli “nati e nascituri” dell’altro figlio interdetto, che determinò la disputa tra i due fratelli su se i figli avuti dalla moglie già sposata potessero avere diritto su quelle proprietà. Lo sottolinea lo stesso autore nel ribadire come “Sono partito dai Buddenbrook di Mann, volevo raccontare le vicende di una famiglia, travolte da un destino tragico, la loro inesorabile decadenza e riflettere sulla capacità delle generazioni di trasmettere valori, malgrado le difficoltà dell’esistenza”