di Virgilio Iandiorio
Ringrazio il mio caro amico e collega Michele de Gaetano per avermi fatto dono del libro di Giuseppe Napolitano dal titolo denso di significato “Orazio misura di vita”, pubblicato quest’anno da Ali Ribelli Edizioni di Gaeta. Non avrei mai immaginato che trent’anni dopo, quando la prima volta incontrai il prof. Giuseppe Napolitano a Minturno, mi sarei ritrovato a leggere sue riflessioni sul poeta di “est modus in rebus”. A Minturno si tenne nel 1994, sulla scia del bimillenario della morte di Orazio celebrato nel 1993, un convegno sul poeta a cui partecipò l’on. Gerardo Bianco e molti docenti dei licei laziali.
L’autore del libro ha fatto una cosa lodevole ha tradotto le poesie dei tre libri delle Odi, l’Ars poetica e qualcosa dagli Epodi. A corredo della traduzione interessanti saggi su queste opere del poeta di Venosa.
L’importanza e il valore di un libro si misura sulle riflessioni che ti spinge a fare, sulle domande che ti fa nascere la sua lettura. Su Orazio sono stati scritti volumi e volumi, i suoi versi sono diventati massime, proverbi, sentenze lapidarie. Sembrerebbe che non ci sia più nulla da dire, ma il campo di indagine sulla sua poesia è veramente un campo vasto, che si offre in ogni momento ad essere arato. Basta avere l’aratro adatta.
Poiché siamo influenzati dal mondo in cui viviamo e, quando leggiamo un autore del passato, la nostra curiosità è attratta da quelle parole che sembrano interessare i nostri momenti attuali, quasi li anticipassero. Scrive Napolitano: “Si pensi ad esempio al suo atteggiamento nei confronti della politica: intimo dell’imperatore, eppure -e nonostante i cedimenti ufficiali per osannarlo ogni tanto e di ingraziarselo (il Carmen saeculare, ma non solo) – quanto alieno dalle mene di corte, dai mille intrighi, abilmente fuggiti in villa” (p.10).
Possiamo definire Orazio homme de lettres, secondo la definizione che Hannah Arendt dà a questo tipo di intellettuale: “A differenza della classe degli intellettuali che offrono i loro servigi allo stato in qualità di esperti, specialisti e funzionari, oppure alla società allo scopo di dilettare o istruire, gli hommes de lettres hanno sempre aspirato a mantenere una certa distanza sia dallo stato sia dalla società” (Hannah Arendt, Walter Benjamin-1892-1940-, trad. it. Milano 2014, p.46).
Dal terzo libro delle Odi il nostro autore traduce la poesia che ha un significato particolare in questo nostro mondo che vorrebbe annullare il passato: “Innalzo un monumento perenne più del bronzo/ alto e regale più delle piramidi;/ non potranno distruggerlo la pioggia/ corrosiva né il vento né lo scorrere/ degli anni nella fuga del tempo innumerevoli”.
Nel nostro mondo dell’IA e di mille diavolerie elettroniche, sommersi come siamo da una valanga di media e di strumenti informatici, quale sorte toccherà alla poesia? Può dire di un poeta, oggi, che scrive per i posteri? I siti online travolgono tutto e niente sembra possa rimanere in piedi più di una giornata. Come si può pensare di costruire un monumento “aere perennius”? Eppure questa è la sfida che sta davanti a noi. Dovremmo fare come i nostri antenati umanisti che rifecero l’antico e ricostruirono una civiltà. Così noi oggi, possiamo costruire una civiltà se crediamo in quello che diciamo e in quello che facciamo, ispirati da quanti sono stati prima di noi e ci hanno lasciato il sentiero tracciato. A noi il compito di non uscire dal solco, non “delirare”.
 
		



