Sbatti il mostro in prima pagina è un film del 1972 diretto da Marco Bellocchio ed interpretato da Gian Maria Volonté che affronta in chiave grottesca il tema dell’uso sensazionalistico dei fatti di cronaca per creare dei “mostri” da dare in pasto al pubblico. In realtà la frontiera del rapporto fra giustizia ed informazione è sempre stata un terreno minato che ha provocato vittime innocenti ed ingiustificate sofferenze, a cominciare dal caso Girolimoni, il “mostro di Roma”, arrestato nel 1927 come responsabile del rapimento, dello stupro e dell’uccisione di sette bambine. ll 9 maggio 1927 l’Agenzia Stefani scrisse che dopo “laboriose indagini” erano state raccolte “prove irrefutabili” contro di lui. Dopo alcuni mesi di carcere Girolimoni venne prosciolto da ogni accusa e rimesso in libertà ma rimase marchiato d’infamia per tutta la vita. Il regime fascista presentò l’arresto di Girolimoni come un suo successo nella lotta contro il crimine e fece passare sotto silenzio la sua liberazione, imponendo ai giornali di non occuparsi più di fatti criminosi per non turbare l’opinione pubblica.
Un decreto legislativo, entrato in vigore il 14 dicembre scorso, è intervenuto su questo delicato tema al fine di determinare “il compiuto adeguamento” dell’ordinamento interno alla Direttiva UE del 2016/343 sulla presunzione d’innocenza, introducendo innovazioni importanti nello statuto delle garanzie del processo penale e nella disciplina della comunicazione giudiziaria. Come ha osservato Armando Spataro: “Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia. All’opposto, la comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità.” In realtà c’è un problema di sobrietà nelle informazioni sui fatti processuali fornite dalla magistratura e dalla polizia giudiziaria (sul punto era già intervenuto il Consiglio Superiore della Magistratura con le linee guida approvate il 18 luglio 2018) che attiene alla credibilità della magistratura, ma l’altro corno del problema è il diritto dell’opinione pubblica di essere informata e la funzione dell’informazione di vigilare criticamente sull’esercizio di tutti i poteri pubblici, compreso il potere giudiziario. Se si assolutizza il tema della presunzione d’innocenza, ammantandola di troppo rigide garanzie extraprocessuali, c’è il rischio di restringere il diritto/dovere di informare. E’ necessario un temperamento dei contrapposti interessi, ma non è semplice trovare un punto di equilibrio. Due sono i cardini su cui si basa la nuova normativa. Il primo riguarda tutte le autorità pubbliche (non solo magistrati e polizia), a cui è fatto divieto “di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.
Il secondo riguarda i rapporti del Pubblico Ministero con gli organi d’informazione; le informazioni devono essere fornite “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”. La norma precisa inoltre che “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”.
Quanto al primo principio, occorre precisare che in alcuni casi non può essere applicato senza distorcere i fatti o ledere il diritto all’informazione. Pensiamo al caso del delitto avvenuto nel Varesotto, dove un padre è stato arrestato in flagranza dopo l’omicidio del figlio di sette anni ed il tentato omicidio della moglie. Sul piano meramente processuale vale la presunzione d’innocenza, nel senso che, fin quando non sono esaurite tutte le fasi processuali, lo status di colpevolezza dell’imputato non è definitivo, ma sul piano della comunicazione, come si fa ad informare dei fatti rispettando il divieto di indicare come colpevole la persona sottoposta a processo? A volte i fatti parlano a voce alta, gridano e non possono essere silenziati.
Quanto al secondo principio, se la sobrietà è un valore che impone dei canoni deontologici, ingessare la comunicazione istituzionale delle Procure pretendendo che avvenga esclusivamente attraverso comunicati stampa e, solo in via eccezionale, attraverso conferenze stampa, senza la possibilità che procuratori e pubblici ministeri possano interloquire a loro volta con i media è un irrigidimento che può essere lesivo del bisogno di una corretta informazione e che può avere solo l’effetto – come osservato da Luigi Ferrarella – di incrementare il mercato nero delle notizie.
Infine c’è un altro aspetto che suscita perplessità, a chi spetta decidere se una notizia giudiziaria è di pubblico interesse? Può essere una competenza esclusiva della magistratura requirente, come emerge dal decreto legislativo in questione? Poiché attraverso il sistema giudiziario passa tutta la storia del Paese e le principali vicende della politica, il rischio è quello di mettere uno sbarramento a quella funzione di critica all’esercizio dei poteri attraverso l’informazione che è una delle missioni fondamentali del sistema dei media in una società democratica. Non a caso la Corte Europea dei Diritti dell’uomo, nel caso Dupuis contro la Francia, con una sentenza del 7 giugno 2007, in una vicenda di intercettazioni illegali, ha stabilito che l’esigenza di informare il pubblico prevale anche sulla presunzione d’innocenza, attribuendo ai giornalisti la funzione di “cani da guardia” della democrazia.
di Domenico Gallo