Non ci sono solo le tensioni quotidiane ad agitare le acque della maggioranza, sullo sfondo diventa via via più centrale la partita del Quirinale e cresce nella destra sia nella Lega che in Fratelli d’Italia la tentazione di candidare Draghi al Colle. Il motivo è che questa mossa aiuterebbe il voto anticipato e dunque le possibili chance della coalizione di vincere le elezioni. Il partito contrario guarda invece alla conferma di Mattarella e la sua eventuale successione sta diventando una sorta di incrocio magico tra i destini del Quirinale e della legislatura. Pd e Cinque Stelle devono darsi una strategia unitaria in vista di questo appuntamento e se tra i democratici la folla di aspiranti al Colle è piuttosto alta nel movimento grillino, soprattutto tra i parlamentari, la preoccupazione maggiore è quella di salvaguardare la durata della legislatura. La soluzione del rebus quirinalizio dovrebbe passare attraverso una sorta di intesa istituzionale tra gli schieramenti per individuare il profilo del candidato ed evitare di imporre il proprio anche perché allo stato delle cose né il centrodestra e nemmeno il centrosinistra hanno i voti sufficienti per vincere la corsa. C’è poi un altro aspetto, la maggioranza di governo non potrebbe sopravvivere in caso di lacerazione al momento del voto sul nuovo capo dello Stato. Mancano alcuni mesi all’elezione presidenziale e il voto delle amministrative di domenica e lunedì prossimo avrà certamente un peso sulla scelta anche se ovviamente non c’è un legame diretto. Potrebbe crescere però, in caso di un risultato positivo, la tentazione di Letta di contrapporsi ancora di più a Salvini e potrebbero, con una sconfitta eclatante, aumentare le crepe nella coalizione di centrodestra, dove –come spiega il politologo Giovanni Orsina – Salvini ha portato la Lega nel governo ma allo stesso tempo non ha potuto o saputo abbandonare del tutto la sua strategia europeriferica e nazionale che aveva seguito fino a quel momento e che aveva pagato nella crescita dei consensi. In fondo, però, era abbastanza prevedibile che il cambio di pagina e il passaggio dall’emergenza sanitaria a quella economico sociale avrebbe complicato l’ultima parte della legislatura. La sensazione è che il nodo della collocazione della maggioranza dei partiti nel governo sia ancora irrisolto. Resta cioè quel paradosso che ne ha accompagnato la nascita, un ingresso nell’esecutivo che nessuno ha preparato bene e dunque oggi manca un motore politico e né il PD, né i partiti sovranisti o i Cinque Stelle sono riusciti a svolgere quel fondamentale ruolo in nome di un grande progetto di ricostruzione nazionale. Tutti si muovono nella convinzione che sia un bene per il Paese sostenere l’attuale governo anche perché Draghi offre le garanzie giuste sul piano internazionale ma tutti immaginano di costruire percorsi diversi nel 2023. E allora oggi le iniziative politiche sono più di interdizione che di reale influenza sull’azione del governo e tutto è lasciato a Draghi. E a conferma di questa tesi c’è che, ad esempio, la struttura di comando del Recovery cioè il grosso dei capitoli di spesa è nelle mani dei ministri “tecnici” da Cingolani a Colao che ovviamente rispondono al premier e non ai partiti. Un problema in più in vista del Quirinale perché, oggi manca un regista, come, ad esempio lo fu Matteo Renzi nel 2015 o Veltroni ai tempi dell’elezione di Ciampi. E allora come dice Romano Prodi, toccherà con ogni probabilità allo stesso Draghi scegliere se avere un grande potere limitato nel tempo oppure avere meno potere ma grande autorità per un tempo molto più lungo. L’auspicio è che il prossimo inquilino del Quirinale non si dovrà allontanare troppo dalla strada e dallo stile dell’attuale Capo dello Stato.
di Andrea Covotta