Concepite nel 1970 come enti di programmazione economica e territoriale, non lo sono mai state. Per una questione di carattere giuridico o per un problema politico, o meglio di opportunità politica, le Regioni oggi sono esemplari enti di mera gestione. Una degenerazione istituzionale che contraddice la norma.
La legge 281 del 16 maggio 1970 (Istituzione delle Regioni a statuto ordinario) stabilisce infatti che “le Regioni programmano lo sviluppo economico e sociale nell’ambito del quadro unitario nazionale, coordinando i propri interventi con quelli dello Stato, degli enti locali e delle altre amministrazioni pubbliche”.
Nel decreto legislativo 112 del 31 marzo 1998 (Conferimento di funzioni alle Regioni), all’articolo 3, è ribadito che “sono attribuite alle Regioni funzioni di programmazione dello sviluppo economico, sociale e territoriale, nonché di pianificazione e gestione delle risorse naturali e ambientali”.
All’articolo 4 si chiarisce ancora: “Le Regioni esercitano funzioni di pianificazione territoriale, coordinando i piani di settore e garantendo il raccordo tra la programmazione regionale e quella statale”.
Alla legge dello Stato che inquadra le Regioni come enti di programmazione e pianificazione nello sviluppo economico e territoriale corrisponde ovviamente la stessa prescrizione nei vari statuti regionali.
Per quanto riguarda la Campania, lo statuto attribuisce al Consiglio regionale il compito di “determinare gli indirizzi generali della pianificazione regionale e approvare il piano regionale di sviluppo, il piano regionale di assetto urbanistico territoriale, i piani comprensoriali, i piani operativi generali di sviluppo sociale ed economico relativi agli interventi di competenza della Regione”.
Non solo. La Regione Campania, è scritto ancora nello statuto, si impegna a “rimuovere ogni ostacolo che impedisce la piena parità delle donne e degli uomini nella vita sociale, culturale, economica e politica ed assicura le azioni di promozione della parità anche nelle fasi di pianificazione, attuazione, monitoraggio e valutazione delle azioni stesse”.
Di queste funzioni di pianificazione onnicomprensiva non v’è traccia nella pratica delle amministrazioni regionali, che fanno tutt’altro rispetto a quanto previsto nell’originaria concezione della legge.
A generare ulteriore confusione sulle funzioni delle Regioni è stata anche la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (Legge Costituzionale n. 3/2001). Da una parte, afferma che “lo Stato e le Regioni concorrono alla programmazione dello sviluppo economico, anche attraverso l’attuazione di piani strategici e strumenti di programmazione negoziata”. Dall’altra, questa legge conferisce alle Regioni competenze esclusive e concorrenti in materie chiave come sanità, istruzione e trasporti. In pratica, dà alle Regioni ampio potere di gestione riguardo ai servizi essenziali.
Apriti cielo. La politica ha ulteriormente interpretato e utilizzato l’autonomia gestionale a suo uso e consumo. Il papocchio è servito.
D’Ercole e l’idea di macroregione
Come conferma Franco D’Ercole, che oltre a essere stato assessore alle attività produttive della Campania, è stato presidente della commissione per la revisione dello statuto regionale. “Dalla loro nascita le Regioni si sono sempre di più involute”, ammette D’Ercole, esponente storico del centrodestra. “Così come erano state previste dalla Costituzione – ricorda – avevano un ruolo di programmazione, ma sono diventate quasi esclusivamente enti di gestione. Per questo, la spesa si è dilatata, per una questione politica dettata dalla necessità degli amministratori regionali di mantenere il consenso a scopi elettoralistici. I nostri rappresentanti in Regione – scandisce D’Ercole – sono succubi del consenso, impegnati ad accontentare le richieste più disparate pur di conservare la poltrona, richieste che non servono minimamente allo sviluppo”.
A farne le spese le zone più svantaggiate, le aree interne che avrebbero bisogno di una programmazione attenta. Da consigliere regionale, D’Ercole propose i patti territoriali, introdotti nella seconda metà degli anni ’90, come strumento per mettere insieme istituzioni, imprese, parti sociali con l’obiettivo di concorrere alla definizione di strategie di sviluppo locale attraverso investimenti e politiche del lavoro.
Altri tempi, un altro modo di far politica. Per il resto, le aree interne, incalza D’Ercole, “sono state politicamente rappresentate molto male, soprattutto nelle ultime due legislature, da consiglieri regionali che hanno avuto come unico obiettivo di legarsi al ‘padrone del vapore’. Non sento nessuno di loro rivendicare una posizione per un progetto di sviluppo.
Abbiamo l’Alta Capacità e il Polo Logistico di Valle Ufita in fase di realizzazione perché in Regione c’è stato chi in passato ha sostenuto queste idee. Io, ad esempio, mi sono battuto per la Contursi-Grottaminarda, che è rimasta bloccata per volere incomprensibile e assurdo dei 5 Stelle, nonostante sia ritenuta da tutti una strada essenziale per i collegamenti nel territorio”. Sì, ma che fare ora? “Se non si comincia a ragionare in prospettiva – dice D’Ercole – sarà difficile che la Campania abbia uno sviluppo”.
Ci sarebbe bisogno, per D’Ercole, anzitutto di una radicale riforma istituzionale: “L’idea della macroregione l’ho lanciata insieme al presidente Rastrelli, osservando tra l’altro quanto il dispendio finanziario stesse diventando insostenibile. La macroregione avrebbe potuto avere inoltre una reale capacità di pianificare uno sviluppo su larga scala, all’interno di un vasto perimetro, creando sinergie virtuose. Infine, un ente di grandi dimensioni – e non come il Molise o la Basilicata – sarebbe stato protagonista di una interlocuzione proficua con i vertici europei”.
Giusto e i cordoni della borsa
Come D’Ercole, anche Angelo Giusto, militante del Pci e poi di Sinistra Democratica, da consigliere regionale ha messo mano alla stesura dello statuto della Campania.
Che è rimasto in buona parte sulla carta: “Purtroppo il centralismo statalista è stato sostituito di fatto dal centralismo regionalista, che è ancora più pericoloso. Originariamente, alle Regioni era stato affidato il coordinamento di area vasta attraverso il potere legislativo, mentre ai Comuni spettavano le funzioni amministrative. Ma nelle competenze di gestione passano i cordoni della borsa, ovvero il controllo sui fondi: le classi dirigenti di tutte le Regioni non hanno voluto mollare la borsa e si sono trasformate in mostri gestionali”. Il rischio di tale degenerazione era già stato avvertito da Luigi Einaudi, che ammoniva: “L’accentramento burocratico è il male maggiore della nostra epoca. Se al centralismo statale si sostituisce un centralismo regionale altrettanto opprimente, il risultato non cambia”.
Opprimente e caotico. “C’è una confusione di competenze evidente – annota Giusto -. Faccio qualche esempio: l’assegnazione degli alloggi popolari è decisa dalla Regione, però ogni Provincia ha il suo istituto per le case popolari. Perché? Per la stessa motivazione per cui la Regione destina risorse a sagre, enti patronali e mostre, a bande comunali, a sacristie e chiese, invece di affidare legittimamente questo compito a Province e Comuni. Si vuol creare – ripete l’ex consigliere – un rapporto di dipendenza tra territori e chi eroga le risorse”. Semplice.
E allora a 50 anni dalla loro nascita qualcuno vorrebbe abolire le Regioni. Forse è l’estrema ratio. Oppure, non si potrebbe debellare una cattiva prassi politica? “Con questa classe dirigente si faranno passi avanti verso la degenerazione”, è la previsione di Giusto. Comunque un peggioramento è probabile già con l’autonomia differenziata: “In base alla riforma Calderoli, non solo le regioni avranno maggiore autonomia gestionale, ma il sistema di attribuzione delle risorse favorirà il Centro-Nord, tagliando fondi al Sud. Le differenze territoriali diventeranno insopportabili, incompatibili con l’Unità del Paese. I medici del Veneto guadagneranno più di quelli del Mezzogiorno. Nelle zone ricche ci saranno migliori servizi, una migliore qualità di vita”, sottolinea Giusto. In Campania già stiamo messi male, almeno a leggere l’ultimo report di Gimbe la mobilità sanitaria verso Nord per curarsi continua a crescere.
“La riforma del Titolo V della Costituzione – ragiona Giusto – fu un errore gravissimo, perché affidò la sanità alle Regioni trasformando il diritto più universale di tutti in diritto frammentato, differenziato e clientelare. Lo dimostra la Campania: non c’è un’altra regione d’Italia che non abbia un assessore alla sanità. La gestione della sanità è la grande madre del consenso elettorale: non si occupa dei pazienti, ma dei direttori generali e dei primari”. E’ la legge del consenso.
Il terzo mandato completa il quadro: “Tutte le cariche monocratiche apicali dovrebbero avere un limite massimo di due mandati, altrimenti – sostiene Giusto – tra chi eroga le risorse e chi le riceve si crea un rapporto di dipendenza che influenza le elezioni. Fare il deputato per dieci legislature è una cosa, ma fare il sindaco o il presidente di Regione per due mandati è tutt’altra questione”. Il ragionamento non fa un grinza. Se la Campania è per De Luca un piccolo sultanato ci sta bene anche il terzo mandato. Un ulteriore fallimento per l’ente Regione.
Ma dove nasce l’inghippo? Si poteva evitare?
Sena, l’inghippo del voto di fiducia sul bilancio e le aree interne
Mario Sena, già capogruppo regionale della Margherita e poi primo capogruppo del Pd in Campania, più volte assessore a palazzo Santa Lucia, ammette subito di essersi pentito “di aver votato l’introduzione della ‘fiducia’ sul bilancio: all’epoca fu una necessità, perché ci volevano giorni e notti interminabili per approvarlo. Ma con il senno di poi mi accorgo che non fu una scelta felice. Si abusa del meccanismo del voto di fiducia inserendo nel bilancio di tutto e di più, spese di ogni genere”.
Soldi spesi a profusione solo per gli “amici”, dove fa comodo. Mentre altre zone rimangono a secco: la Regione nelle aree interne non esiste. “Negli anni Ottanta – ricorda Sena – furono creati su vari territori, ad esempio a Sant’Angelo dei Lombardi, mio paese d’origine, uffici regionali con funzioni amministrative importanti. Oggi quella sede è per l’80% vuota. È la rappresentazione del declino delle ‘Terre dell’osso’. Vedo buoni risultati organizzativi ed operativi nelle aree urbane e nelle realtà forti e attrezzate, dove ci sono servizi e c’è sostegno alla crescita, dove arriva la spesa finanziata dal Pnrr e dalle altre risorse europee. E si ottengono risultati. Di contro, nelle aree interne il diritto alla salute non è spesso garantito, è ancora un miraggio la medicina territoriale, è carente l’ assistenza ospedaliere. L’ ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi, lo hanno detto le autorità regionali, sopravvive solo perché esiste la ‘don Gnocchi'”.
“Mi lascia perplesso – ammette Sena – che si parli con ipocrisia delle zone interne come di una priorità dello sviluppo. Nel profondo Sud la situazione è difficile. La grande battaglia per le zone interne è ormai ridotta a poca cosa. Se consideriamo gli indici abitativi, lo spopolamento giovanile è drammatico. E non ci sono politiche che ribaltino questa tendenza. I giovani avrebbero bisogno di lavoro, le comunità di servizi che non ci sono. Perfino gli sportelli bancari sono spariti: sempre a Sant’Angelo – parlo della realtà che osservo – ce n’erano due, oggi nessuno. Lo stesso vale per gli uffici postali. E potrei continuare citando gli accorpamenti delle scuole ed altro ancora”.
Tanto basta a provare che la politica regionale, proprio a causa del fallimento delle Regioni, è stata troppo spesso indirizzata a scambiare le risorse con i voti, preferendo interventi congiunturali e speculativi al consenso verso le aree più popolose, scegliendo famelicamente il tornaconto facile e immediato del potere politico, invece che una programmazione di interventi strutturali in grado di avere nel tempo un impatto significativo sullo sviluppo dei territori poveri.
Piero Calamandrei, fine giurista, metteva in guardia dai pericoli di un regionalismo mal gestito: “Nel groviglio burocratico e clientelare che caratterizza molte Regioni, la libertà di scelta amministrativa e la trasparenza sembrano sempre più compromesse”. Così è stato: la politica per il potere ha prodotto la fine delle Regioni, determinando un vulnus istituzionale incompatibile con i principi costituzionali, con i diritti e persino con l’Unità del Paese – altro che autonomia differenziata – e trasformando le stesse Regioni nella causa dei problemi che avrebbero dovuto risolvere.