di Matteo Zarrella – Da un estratto del libro “Albino- una storia rigata di filo spinato”. L’8 settembre in cronaca. È la cronaca che spiega la Storia. Si parla dei momenti vissuti e sofferti dai soldati e dagli ufficiali di stanza in Albania che si trovarono in bilico, sull’orlo dell’abisso di un futuro ignoto.
Verso le 19,00 dell’8 settembre 1943, a Tirana, Albino usciva dall’ufficio di commissariato e s’incamminava in direzione di una casetta di periferia dove aveva sede la “mensa ufficiali”, nei pressi di un campo d’aviazione. Tra i soldati scorreva in libera uscita una strana euforia. Grida di giubilo: “La guerra è finita. Torniamo a casa”. Si tornò in caserma per avere notizie sicure.
Una volta in caserma, gli animi si raffreddarono. Il colonnello si mostrava scuro in volto. Preoccupati tutti appresso a lui. E tutti in silenzio a far posto ai pensieri. Poi, un sovrapporsi concitato di voci: “È un armistizio, non una pace”. Obiettava qualcuno. Con l’autorità delle stellette un giovane ufficiale sentenziò: “Abbiamo fatto la pace con gli inglesi e con gli americani, ma non abbiamo rotto l’alleanza con i tedeschi”. “E con i giapponesi?” “Si, anche con i giapponesi”. Il giovane ufficiale spiegava: “Ma i tedeschi stanno da queste parti, noi sappiamo come sono fatti i tedeschi. Non vorranno sentire ragioni. O con loro o contro di loro”. E poi, aggiunse abbassando la voce come a rivelare un segreto: “I tedeschi hanno al loro fianco i fascisti della milizia che sono determinati a voler vendicarsi del 25 luglio, dell’arresto del Duce”.
All’incertezza dei comandi italiani corrispose la determinazione dei tedeschi che fin dalle ore 20.00 dell’8 settembre misero in attuazione il piano ASCHE predisposto nei primi giorni di agosto, preoccupandosi immediatamente di interrompere le linee di comunicazione e di prendere posizione e occupare le strade principali.
L’8 Settembre stentava a lasciare il passo al nuovo giorno, Giovedì 9 settembre 1943. Pareva come se niente fosse successo il giorno prima, perché il mondo continuava a girare al solito modo. La mattina del 9 settembre Albino era nel suo ufficio di commissariato. Ma non vi era la testa per battere un timbro. Nei corridoi si sentiva tutto un vociferare sull’armistizio. Si poneva attenzione ad ogni segnale. Aerei tedeschi volteggiavano nel cielo di Tirana. Nel campo di aviazione atterravano a più riprese forze aviotrasportate.
Girava voce della fuga del Re, della Regina, del Principe ereditario, dei Generali della Corona, di Badoglio e dei famigli al seguito. Non tarderà la Radio a confermare quell’incredibile notizia. Cosa dovevano fare i comandanti responsabili delle caserme italiane? Si consultavano con i loro ufficiali e tutti a riflettere sulle parole dell’armistizio. L’unico ordine era quello proclamato alla radio da Badoglio: Cessare le ostilità con gli angloamericani, reagire contro attacchi di qualsiasi altra provenienza. Quale “altra”? Non contro gli inglesi, non contro gli americani? E allora contro quale altro nemico? Contro i ribelli, i partigiani, i patrioti albanesi? Un sottotenente scriveva nel suo diario alla pagina del 9 settembre: “Chi può rispondere agli interrogativi di queste ore di incertezza? Chi porrà un ordine nei miei pensieri? Chi ci dirà la verità di questo giorno a noi oscuro? L’Italia ha firmato l’armistizio. E fin qui tutto bene, è, comunque, la fine della guerra. Ma i Tedeschi hanno fatto altrettanto? E nel caso contrario, che sta accadendo in Italia in questo momento?”.
I soldati più audaci si dicevano pronti a fronteggiare una possibile irruzione dei tedeschi. A convincerli alla prudenza, intervenne un ufficiale: “Noi spariamo ai tedeschi e i tedeschi sparano a noi. Sarà una carneficina. Meglio non sparare e vediamo cosa può succedere”. Non pochi soldati proposero una fuga di massa: “Il Re, Badoglio e i Generali dello Stato Maggiore ci hanno dato con il loro esempio, l’unica soluzione possibile: la fuga”. Replicò un giovane ufficiale: “Tutti vogliamo tornare a casa ma le nostre case sono all’altra sponda dell’Adriatico. Per raggiungere la nostra Patria dobbiamo risalire dal Montenegro fino a Fiume, ma saremo presi di mira dai parigiani albanesi e sloveni”.
Scoraggiava ogni pensiero di fuga l’idea di dover prendere la via del mare, imbarcarsi clandestinamente a Valona o a Durazzo per raggiungere la Puglia che era sotto il protettorato dei nuovi alleati angloamericani. Scartata dai militari anche l’idea di potersi aggregare ai partigiani albanesi. Odorizzi aveva rifiutato l’invito offertogli da un capitano albanese di rimanere al sicuro nella sua casa di montagna o nella casa di città, almeno per il tempo di durata della guerra. Cosa fare?, si chiedeva, rimanere in Albania a rintuzzare gli attacchi dei ribelli albanesi che avrebbero certamente preso coraggio e approfittato del momento di confusione, dello smarrimento dell’esercito lasciato allo sbando? E come rimanere in Albania? Con un Re, con un capo di Governo e con tutto lo Stato Maggiore in fuga. Come avrebbero funzionato i rifornimenti necessari provenienti dall’Italia e come avrebbero funzionato in una condizione di isolamento i servizi logistici. Avrebbe potuto funzionare il servizio di comunicazione postale con la Madre Patria? Come sarebbe stato possibile scrivere lettere ai familiari e dare notizie? E ricevere lettere dai familiari?”.
Il Comandante, riuniti ufficiali e soldati, ragionava: “Come si possono impugnare le armi contro i tedeschi? I tedeschi rimangono nostri alleati. Non vi è stata alcuna dichiarazione di guerra contro di loro. Non possiamo essere noi a dichiarare guerra alla Germania”. E decise: “Evitare spargimento di sangue, aprire ai tedeschi le porte della caserma”.
In quel frangente era difficile mantenere la disciplina. Per ripristinare l’ordine, il Comandante fece suonare la tromba. I soldati, agli squilli di tromba, fecero quadrato, tutti in fila all’adunata. Di fronte alla bandiera che si alzava sul pennone, si irrigidirono solenni nell’attenti. Dalle fessure delle finestre si vedevano tedeschi appostati presso il portone della caserma, pronti a scardinarlo. Insistenti, giunsero le proposte dei tedeschi: “Cedete le armi e vi faremo tornare in Italia”. Era seducente quella promessa di rimpatrio rivolta a militari sfiduciati e stanchi. I tedeschi temevano che italiani e ribelli albanesi si potessero unire nella reazione. I tedeschi ordirono una trama di inganni. Furono avio-lanciati appelli dagli aerei, con distinte destinazioni.
Questo l’appello agli italiani: “Soldati italiani, volete ritornare presto alle vostre case? Siate disciplinati, eseguite la marcia di trasferimento già disposta dai vostri comandanti, non abbandonatevi alle avventure, alle pericolose iniziative individuali, non datevi alla montagna. Per voi la guerra è finita, ormai. Siete stanchi, ne avete abbastanza di combattimenti, di pericoli, di disagi, avete tanto sacrificato e sofferto, avete diritto finalmente alla vostra tranquillità, alla pace nelle vostre famiglie, al ritorno alla vostra Patria”. Era quello che ufficiali e soldati volevano sentirsi dire. Di tutt’altro tenore, l’appello agli albanesi: “È giunto il momento della vostra giusta vendetta. Gli italiani hanno calpestato i vostri diritti, sono degli usurpatori, degli oppressori. Hanno bruciato le vostre case, bombardato i vostri paesi, martirizzato la vostra Patria, calpestato le vostre libertà. Ora sono in disfatta. Vendicatevi! Colpite gli italiani”.
A tarda sera, nel buio di una notte eterna, la caserma è avvolta in uno straordinario silenzio di paura, di premonizione di eventi cupi che stanno per succedere. A rompere il silenzio, il rumore inconfondibile di carri armati e di autocarri. Soldati tedeschi irrompono nelle camerate. Urlano: RAUS-RAUS (FUORI-FUORI) spostando di scatto le mitraglie verso la porta d’uscita. Fanno uscire ufficiali e soldati, adunandoli, mischiati, nello spiazzo della caserma. I tedeschi comandano il disarmo. Il Colonnello italiano chiede ai tedeschi di poter dare ai suoi uomini l’ultimo comando e, con voce commossa, grida: “Onore alla bandiera”. La gravità del momento si legge nei volti dei soldati italiani. Tre squilli di tromba anticipano un silenzio profondo. I soldati italiani s’ irrigidiscono in posizione di attenti e i tedeschi scattano all’ordine del present’ armi.
I militari italiani son costretti a cedere le armi. Osservavano intristiti l’ammucchiata nel cortile di moschetti e giberne. Nella mattina del 10 Settembre si vede arrivare un Capitano d’aviazione tedesco con un seguito di soldati in assetto di guerra. Appare con un grosso sigaro e, con fare insolente, impartisce ordini: bloccare tutte le vie di accesso alla città, fermare gli automezzi in dotazione per i prelevamenti della roba ai nostri magazzini. Tutto sarebbe andato in possesso dei tedeschi. Gli italiani, ufficiali e soldati si aggrappano alla voce che tra il Comando italiano della IX armata ed il Comando tedesco fosse stato raggiunto un accordo. I particolari dell’accordo accreditano quella voce. La nona armata italiana sarebbe stata portata a Belgrado per proseguire poi la marcia del ritorno in Italia.
In quei giorni 11 e 12 settembre Ufficiali della Wehrmacht spingono i militari italiani a rimanere fedeli all’Alleanza, a continuare a combattere al fianco dei tedeschi per “cancellare l’onta che Casa Savoia aveva inflitto all’Italia”, a sottoscrivere la formula di adesione: “Mi obbligo di servire in Italia nel quadro dell’arma S.S. sino a fine guerra”. La Wehrmacht intende vincolare gli aderenti, messi di fronte alla bandiera con croce uncinata, al solenne giuramento:
“Io presto su Dio questo sacro giuramento, che nella lotta per la mia patria italiana contro i suoi nemici, ubbidirò incondizionatamente al Comandante Supremo dell’Esercito tedesco Adolfo Hitler, e che sono pronto a dare in ogni momento, da soldato valoroso, la mia vita per tener fede a questo giuramento”.
La Wehrmacht minaccia: “I soldati italiani che rifiutano di prestare giuramento saranno deportati nel territorio del Reich e trattati come internati militari”. Ai giovani ufficiali italiani propone di svolgere servizio di Ordine Pubblico. La mattina del 12 settembre del 1943 è un Console della milizia a chiamare gli ufficiali italiani a raccolta. Rinnova l’invito a sottoscrivere la formula di adesione. Richiama le parole testuali: “servire in Italia”. E spiega: “questo vuol dire che, appena arruolati nelle S.S., sarete in Italia”. Qualcuno domanda: “Com’è la divisa delle SS italiane?”. Il Console risponde: “Come quella dei tedeschi, ma sul braccio sinistro porterete una fascia tricolore”.
Un giuramento, detto “sacro”, all’obbedienza incondizionata ad Hitler. Per Albino, neppure a pensarci. Si tratta di un nuovo “Credere, Obbedire, Combattere”: credere ad una guerra ingiusta d’aggressione, obbedire al Dittatore tedesco, combattere per una Patria straniera, con una uniforme straniera. Segue un coro forte e fiero di No! e una ondata di fischi. Il Gerarcone reagisce, a gran voce: “Ve ne accorgerete cosa vuol dire essere prigionieri dei Tedeschi!”. Sono pochi gli ufficiali italiani che si dichiarano pronti ad entrare nelle file delle S.S. I primi reparti di SS italiane, sotto comando tedesco, giungeranno in Italia a fine novembre del 1943. Nell’aprile del 1945 saranno circa ventimila le S.S. italiane. Tutti quelli del No! saranno caricati su carri bestiame. Albino nel carro bestiame si troverà stipato in una massa di oltre 50 uomini, in viaggio verso destinazione ignota, per giorni e notti penosi e interminabili.
I militari italiani impegnati sui diversi fronti avevano fatto fatica a capire l’8 settembre. Non vi è diario che non prenda avvio da quella data. Da allora si son sentiti chiamare traditori. Traditori, urlano contro di loro i tedeschi appena li hanno sotto mira, e badogliani, come se un Badoglio fosse entrato nell’animo di ciascuno di loro. Ma cercando di capire l’8 settembre, facendosi domande, facendo domande, dibattendo tra loro in lunghe ed animate discussioni, arrivano a capirlo ben bene, oltre l’apparente significato di un semplice evento, di un armistizio siglato nella guerra in corso. Con l’8 settembre il sentimento di popolo, di contrarietà alla guerra, manifestatosi il 25 luglio, prende gli animi anche del popolo in uniforme.