La parola più usata in questi lunghi tempi di transizione è emergenza. Un’emergenza politica permanente che, probabilmente, ha una data d’inizio: il 17 febbraio di trent’anni fa. Tutto parte da un luogo apparentemente periferico, in una casa di riposo a Milano, il Pio Albergo Trivulzio, un ente di solidarietà guidato dal socialista Mario Chiesa. E’ un fedelissimo dell’allora leader socialista Bettino Craxi, si trova nel suo ufficio, dove riceve l’imprenditore delle pulizie Luca Magni. Chiesa viene arrestato la sera stessa per concussione, con l’accusa di aver incassato una tangente da 14 milioni di lire che gli era stata appena consegnata da Magni, il quale aveva messo a punto l’operazione con la complicità del capitano dei carabinieri Roberto Zuliani e con un sostituto procuratore, all’epoca sconosciuto, Antonio Di Pietro, lo stesso che in breve tempo diventerà l’uomo più popolare d’Italia, quasi un eroe per milioni di cittadini che lo osanneranno considerandolo il simbolo del bene contro il male. Giuliano Ferrara scriverà che addosso a Craxi e a quella classe politica precipita la rabbia di una società civile che si presumeva incorrotta senza esserlo. Dopo trent’anni si può dire che un mondo politico è crollato ma quello che lo ha sostituito è andato rapidamente in disfacimento e un nuovo sistema stenta ancora a prendere forma. Organizzare la ripartenza della politica, a caccia della credibilità perduta, si è rivelata un’operazione molto complessa. La distanza che si è creata con l’opinione pubblica è molto ampia e la prima cosa da fare resta quella di capire quale senso di marcia imboccare per ridurre la disaffezione con l’elettorato. Si invoca il ritorno al sistema proporzionale, il modello della prima Repubblica che ha funzionato, con molti limiti però, perché allora c’erano i partiti. Oggi al contrario ci sono sigle, movimenti, liste personali che non hanno nulla in comune con i partiti tradizionali e che ancora esistono in tanti paesi europei. I partiti erano luoghi dove la classe dirigente veniva selezionata attraverso le sezioni e le amministrazioni locali. Questo modello è imploso agli inizi degli anni Novanta ed è stato sostituito dalle coalizioni, alleanze tra partiti che la pensano diversamente su tutto ma sono “costrette” a stare insieme per conquistare un voto in più dell’avversario. Il centrodestra è nato intorno alla figura di Berlusconi che ha federato forze assolutamente diverse, quella secessionista della Lega e quella nazionalista della destra di Fini. Sono passati quasi trent’anni, Berlusconi c’è ancora seppur molto indebolito e la guerra tra Meloni e Salvini ha sostituito quella tra Bossi e Fini con quest’ultimo che arrivò a dire: non prenderò mai più un caffè con lui, salvo poi tornare a farci alleanze e governi. Si sta insieme per convenienze tattiche, solo soluzioni estemporanee, non c’è mai un disegno, una costruzione, una prospettiva. Il centrosinistra ha vissuto per anni solo di contrapposizione a Berlusconi. Era la coalizione alternativa al berlusconismo. Solo il primo Ulivo ha davvero segnato una differenza. Partito popolare e PDS, eredi del cattolicesimo democratico e della sinistra uniti non in un grande contenitore ma ognuno svolgendo il proprio compito per ridisegnare un volto nuovo del Paese. Finito quell’esperimento comincia un declino con la moltiplicazione delle sigle e con cambiamenti di facciata. Così oggi tutti i partiti vivono nella condizione che il tempo non possa finire mai, c’è sempre un altro giorno, c’è sempre la possibilità di una nuova dichiarazione diversa da quella annunciata solo poco prima. E come ha scritto Alessandro De Angelis: “per avere di meglio bisognerebbe sapere dove si sta andando, e non come i protagonisti di Gioventù bruciata giocare in una folle corsa per poi ritrovarsi tutti schiantati dentro un burrone”.
di Andrea Covotta