di Monia Gaita
Perché i giovani disertano la politica? Perché assistiamo con sgomento a un declino costante della militanza attiva e a un quasi completo esaurimento delle scorte dell’entusiasmo e dell’impegno?
La politica ha smesso di sedurre, divenendo l’epicentro di una zona rossa di problemi irrisolti e richieste inevase. Un’epidemia di disaffezione che rischia di contagiare sempre più ragazzi, non più artefici di sviluppo e cambiamento, ma spettatori passivi, abulici e in profondo crollo di riconoscibilità.
Sì, perché i giovani faticano a riconoscersi nella galassia confusionale dei loghi e dei simboli partitici, i cui affiliati saltano da uno schieramento all’altro così come l’ape fa coi fiori.
Un deficit identitario che vorrebbe richiamare dall’esìlio alcuni concetti cardine:<<Ideologia, giustizia, uguaglianza, solidarietà>>, mentre i partiti diventano scatoloni multitasking dove la pianificazione del vantaggio comune finisce neutralizzata o soverchiata da lotte di comitati o di categoria, calcoli di campanile o personali. Ma soprattutto rampolla un pressappochismo becero che decreta e impone un nuovo e inquietante dogma: Tutti possono fare politica.
Quale pericolo si annida in questa disponibilità a coinvolgere priva di selezione? Un adiscernimento che prolifera incontrollato, non solo per il crepuscolo qualitativo dei reclutanti, ma anche per il crepuscolo qualitativo dei reclutati.
Eppure sappiamo, che senza un orizzonte alto di visione, la politica diventa un cielo senza stelle, un prato senza erba, un canto senza voce.
Principalmente risulta deleterio farci contaminare da una organizzazione della politica come spazio indistinto o pantano, dove la coerenza, il sapere, la riflessione e lo spirito associativo non allignano.
Cosa la politica dovrebbe allora recuperare? C’è bisogno di una rigenerazione morale e intellettuale dei soggetti politici e della capacità di promuovere un’effettiva partecipazione alla res publica. La crisi delle ideologie, prosciugate alla loro stessa fonte, ha affievolito il dibattito all’interno dei partiti, in una spinta disgregativa che accelera con lucida consapevolezza. Ne scaturisce che se non si acquisirà, rifondandola, la necessaria gerarchia dei valori, avremo dei partiti sempre più pigri, nell’accentuato distacco tra rappresentanza istituzionale e interessi reali.
I partiti non sono nicchie o holding; non sono caste, club o circoli ristretti seduti sulle macerie di sé stessi; non hanno regolamenti, riti e scopi sganciati dalla società civile. I membri di un partito devono potersi identificare nel vasto arcipelago di pensiero che essi stessi concorrono a creare, di volta in volta , facendosi interpreti di istanze riformatrici e propositi di emancipazione. La politica deve diventare un luogo di scambio di informazioni e idee, un’officina educativa che freni l’avanzata dell’insoddisfazione, del disagio e della barbarie culturale dilagante.
Deve sanare la cagionevolezza dei paesi e delle città, facile preda di povertà e divisioni. Deve potersi sostenere a un fulcro di strategie per rispondere adeguatamente all’emergenza del lavoro, della sanità, della scuola, delle carceri, dei tanti diritti monchi o accantonati. E deve farlo giovandosi non di gregari o soldati di ventura, ma degli uomini migliori che nel bivio tra prospettive individuali e prospettive collettive, non esitino a perseguire il benessere generale. Se la politica saprà ridisegnare il suo statuto, riuscirà a ravvivare la fiammella di un ardore in fase quasi terminale. Per impedirne il tracollo serve la volontà di ciascuno, oltre il sovraffollamento della retorica e della propaganda.
Serve studiare la politica, amarla, praticarla. L’utilizzo strumentale e improvvisato dell’agro politico, i tornaconti di bottega, il fluire acrobatico da una sponda all’altra, i conflitti intestini, sfibranti e detestabili, non favoriscono la costruzione di un’area fertile, un campo di cittadini che siano cittadini, non postulanti con l’ansia del futuro.
Occorre riedificare la politica, ristrutturarne le parti ammalorate, rifiutarne le lobby e la demagogìa, iniettare nelle vene dell’agire il sangue di un’unità di intenti non deturpato dall’inganno.
Occorre uscire dallo stallo mesto dell’offerta smentendo l’umorista Kin Hubbard in una salace dichiarazione: “Tutti vorrebbero votare per l’uomo migliore: peccato che non sia mai uno dei candidati”.