di Gaetana Aufiero
A pochi giorni dal venticinquesimo anno di applicazione della legge della Memoria, in attesa di una tregua definitiva nella guerra feroce in atto nella terra Santa tra lo stato D’Israele e i territori palestinesi controllati a Gaza da Hamas, la notizia della morte di Furio Colombo ci invita ad di nuovo a riflettere sul rapporto tra memoria ed oblio.
A Furio Colombo si deve infatti la proposta dell’istituzione del “giorno della Memoria” ( Legge Colombo -De Luca, approvata nella Camera dei Deputati il 28 marzo 2000; nel Senato il 5 luglio 2000) con cui la Repubblica riconosceva il 27 gennaio ( anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica nel 1945 ) come data di ricordo della Shoah, delle leggi razziali, della persecuzione di ebrei, dissidenti politici antifascisti e di tutte le ”categorie” dei perseguitati.
Un 27 gennaio scelto dal Parlamento dopo un lungo dibattito per sostituire la data proposta da Colombo, quella del 16 ottobre del 1943, anniversario della razzia antiebraica di Roma del 1943 realizzata da nazisti tedeschi e fascisti italiani. Il 27 richiamava infatti l’immagine dell’esercito sovietico che entrava ad Auschwitz a liberare un campo di concentramento nazista, cancellando così dal campo visivo della storia il ruolo degli italiani e contribuendo ad alimentare l’immagine del bravo italiano contrapposto al cattivo tedesco. Una contrapposizione già utilizzata dalla propaganda alleata affidata sia ai volantini gettati a milioni dagli aerei anglo americani, sia alle trasmissioni di Radio Londra, Radio Mosca, The Voice of America. Un mito che i tanti convegni, i tanti incontri succedutisi in questi 25 anni di applicazione della legge hanno contribuito, ma solo in parte, a ridimensionare, grazie anche all’apporto di storici ed al loro lavoro di scavo ed analisi di documenti per anni inaccessibili. Di qui tutta una serie di incontri con testimoni che si sono succeduti nel nostro paese e nel territorio irpino per due decenni, contribuendo ad arricchire il calendario civile della nostra nazione di una nuova data che andasse oltre le memorie individuali ed offrisse un orizzonte di senso alle vicende che hanno segnato con le vite dei nostri padri anche le nostre (non solo la persecuzione razziale, lo sterminio, le vicende dei prigionieri di guerra…).
Un lavoro condotto anche nelle scuole e vissuto dai giovani con un entusiasmo. Eppure, proprio Furio Colombo, appassionato testimone di ciò che era accaduto, nei suoi articoli non mancava di sottolineare con timore il permanere e talvolta il rafforzarsi di un sentimento antiebraico e di un gioco mediatico irresponsabile, che poneva sullo stesso piano le vittime e i carnefici di Auschwitz. Il fatto che questo disastro mediatico, questo sgretolamento della memoria fossero in atto e continuano ad esserlo sempre più, è evidente oggi in un gran numero di dichiarazioni pubbliche e private nelle quali si ritrovano motivi e temi del passato affastellati ed usati al di là di ogni logica. Un esempio fra tutti il linguaggio di Alice Werdel, candidata del partito tedesco Afd alle prossime elezioni in Germania, che ha parlato di Hitler come di un comunista ed il continuo richiamo nel linguaggio politico ad espressioni e simboli del nazifascismo, per non parlare di croci celtiche apparse in questi giorni anche a San Michele di Serino.
A cosa serve dunque il Giorno della Memoria? A cosa le tante voci dei testimoni che si sono succedute e si succedono ancora nelle nostre scuole?
Nello scoramento che ci assale, una sola la risposta!
La troviamo espressa in un articolo di Furio Colombo presente su Diario, pubblicato nel 2008 in occasione dell’ottavo anno di applicazione della legge, che ci richiama ancora una volta alla responsabilità della memoria, anche se il cammino da percorrere è sempre più faticoso. “È necessario, infatti, non solo ricordare la Shoah, ma anche ricordarsi di ricordare per non perdere il filo della storia.”
Un filo che sembra giorno dopo giorno spezzarsi e venir meno.
A soccorrerci ed a darci forza oggi sono le parole di Primo Levi nella conclusione di “I Sommersi e i salvati” pubblicato nel 1986.
In sintesi, lo scrittore si rivolge alla generazione del dopoguerra, la nostra generazione, quella che ha visto le macerie di un’Europa distrutta dalla violenza e può capire il dramma vissuto dai suoi padri,
Cosa potrà accadere- si chiede- per i giovani nati nei decenni successivi che avranno problemi diversi, urgenti: la minaccia nucleare, la disoccupazione, le tecnologie che si rinnovano freneticamente e a cui bisogna adattarsi?
“Una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli, di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge. Per noi, parlare con i giovani -aggiunge- è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere e insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati.
Dobbiamo essere ascoltati… È avvenuto contro ogni previsione che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove il riso… È avvenuto quindi può accadere di nuovo. Questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere e dappertutto …La violenza utile o inutile è sotto i nostri occhi…. Attende solo il nuovo istrione che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo.“
Sta avvenendo incredibilmente di nuovo sotto i nostri occhi oggi con istrioni e saltimbanchi!
Dobbiamo dunque riprendere il filo della storia, seguirlo anche nelle tragiche guerre in corso nel Medio Oriente, respingere il rinascere o risvegliarsi di antichi spettri come quello dell’antisemitismo e del razzismo celebrando con serietà e rigore storico la venticinquesima giornata della Memoria e sottolineando, con le parole della senatrice Liliana Segre, che questa data del nostro calendario civile vuole ricordare agli europei ed anche a noi italiani non solo lo sterminio di un intero popolo, ma soprattutto un crimine orribile del quale è solo nostra la responsabilità, anche se abbiamo quasi sempre cercato di non vederla.