E’ un omaggio alle donne custodi di segreti e tessitrici di destini “Memorie di una Janara” di Emanuela Sica, Delta 3 edizioni. Un volume prezioso perché restituisce dignità al sapere profondo e arcaico di creature, a lungo bollate come figlie del demonio. Donne che rappresentavano, invece, un ponte tra terreno e sacro, tra vita e morte, capaci di decifrare il cielo e comprendere i segreti delle piante e trasformarli in vita o morte. Non ha dubbi Emanuela, una vita come avvocato, scrittrice, poetessa, dedicata alla difesa dei diritti delle donne, “Etichettare una donna come strega era più che un insulto: era un’arma per ridurre al silenzio. Dire ‘sei una strega’ significava precisare ‘sei pericolosa e non ti posso controllare’. Era un modo per relegare il sapere al margine, per spegnere una luce che brillava troppo forte”. Ma le streghe hanno resistito e non hanno mai smesso di tramandare i loro segreti, testimonianza di un potere che sfida il tempo e le paure. Continuano a farlo attraverso la brina che cade sulle foglie, attraverso le lacrime che bagnano i visi, attraverso la legge dell’amore, attraverso il coraggio delle donne di oggi e di ieri. Donne che, ci ricorda Sica, appartengono solo a loro stesse, si rifiutano di appartenere a un uomo o a un ordine prestabilito. “Non madri – scrive – non mogli ma donne sacre. Vergini non nel corpo ma nello spirito, incontaminate dai vincoli di una società che le voleva mansuete”. Proprio come le Janare, come erano chiamate in Campania “creature dei margini, ombre sfuggenti che intrecciano il visibile con l’invisibile….custodi di una libertà primitiva che fa paura”.
Ad alternarsi, in un racconto che fonde registri differenti, pagine di prosa e poesia, a partire dal misterioso manoscritto ritrovato da Michele in una casa abbandonata, in contrada Li Pacci, dove si racconta che le case siano abitate da spiriti inquieti. L’autrice ci accompagna alla scoperta di quel manoscritto sulla cui copertina campeggia lo stesso titolo del romanzo “Memorie di una janara”. E’ così che Michele e Ginevra cominciano questo percorso sulle tracce delle Janare, nel tentativo di andare al di là di luoghi comuni e pregiudizi, per comprendere come queste donne, in possesso di un patrimonio di conoscenze precluse agli altri o semplicemente ribelli alle convenzioni del tempo, fossero state a lunghe emarginate dalla società. “Erano libere, spesso guaritrici, conoscitrici della natura e delle erbe, capaci di curare con metodi che sfidavano la medicina ufficiale. Vivevano fuori dalle convenzioni sociali del tempo, non si sottomettevano facilmente agli uomini nè ai rigidi dettami della Chiesa. Questo le rendeva sospette agli occhi della gente…Non seguivano le regole imposte dalla società patriarcale e spesso aiutavano altre donne a fare lo stesso. E quando la Chiesa ha iniziato a vedere nel loro potere naturale una forma di eresia, la situazione è degenerata”.
Di qui la scelta di condannarle al rogo o alla tortura solo per paura della loro forza e conoscenza e la necessità di giustificare quelle condanne, raccontando che le donne, così si legge nel Malleus Maleficarum, erano più inclini alla stregoneria perchè deboli, fragili e corrotte. Accanto alla storia del ritrovamento del manoscritto leggiamo anche noi le parole della Janara “Io sono semplicemente la guardiana dei segreti. Conosco gli incantesimi per guarire e per nuocere, posso portare prosperità e distruzione. La mai magia è un’arma affilata come una lama di ferro e la mia conoscenza dell’ancestrale universo è ineguagliabile. L’etichetta di demone, strega malvagia, mi sta stretta. Io non sono nient’altro che il riflesso oscuro dell’anima umana, una manifestazione dei desideri e delle paure che giacciono nell’ombra in cui riposo”.
Un destino, il suo, segnato fin dalla nascita poichè il padre pagò con la morte la scelta di possedere la figlia di un ricco mercante, fu murato vivo e la madre dovette accogliere il seme di quella violenza per poi decidere, preda della disperazione, di lanciarsi dal dirupo. A delinearsi un universo patriarcale in cui gli uomini finiscono per privare le donne della loro libertà. Unico conforto la terra irpina che mi ha accolto “Ora sono qui a mordere questo presente senza lesinare devozione alla mia terra irpina che mi ha adottato senza pensare alla mi discendenza. Lei mi dona un giaciglio caldo, ventre accogliente, per farmi riposare stanotte prima che il sole mi dica che ho un altro giorno da vivere”. La Janara capirà presto di non poter vivere liberamente il proprio amore, di non potere sfuggire al proprio destino, anche lei vittima della violenza di un uomo, del proprio padrone, seppellita per il suo rifiuto e sceglierà di affidare la propria bimba a un convento di suore per sottrarla a quella maledizione. “Ero solo diversa dalle altre, destinate a tessere generazioni, nient’altro che fattrici, utensili di carne, oggetti di possesso. Si dissolve la mia immagine ma resta il segno del peccato universale…Sento urlare il mio nome, vengono a prendermi, non tornerò a scrivere, chi ti svelerà conoscerà la mia storia che non muore con me”.
Michele e Ginevra scopriranno presto che quel manoscritto custodisce anche ricette antiche, infusi e pozioni, simbolo del patrimonio di conoscenze di cui le streghe erano detentrici, dal filtro dell’amore bramoso all’incantamento per sogni profetici, dall’antidoto contro i veleni all’infuori di verità. Poichè questo libro, scrive la Janara, “è un varco, una soglia aperta tra il reale e l’immaginario”. Infusi e ricette che si affiancano ad un ricco repertorio di antichi racconti in dialetto irpino che raccontano di janare ma anche di donne vittime della violenza dei mariti o della cultura patriarcale come Giuseppina, uccisa dal marito, che aveva già un’altra donna, dopo essere stata sorpresa ad amoreggiare con un altro uomo e pronta a vendicarsi dopo la morte. O riti o credenze legate alla paura delle Janare, così era vietato lasciare l’abbigliamento dei bambini steso fuori, altrimenti le Janare lo avrebbero usato per fare fatture. Fino allo scazzamauriello, gnomo con la barba bianca e il corpo minuscolo, che fa impazzire Gaetano, o a Rocco condannato da una maledizione a trasformarsi in lupo mannaro che potrà essere sconfita solo dall’amore di una madre, dal Muto del Formicoso a Zia Vecchia che impazzì nello scoprire che l’uomo da lei amato l’aveva ingannata ed aveva una famiglia “Zia Vecchia diventò pazza, cambiò il cuore e anche la faccia, da giovane a vecchia in un attimo si trasformò e sconvolta giurò che nessuno l’avrebbe più presa in giro. Una grande nevicata cadde, allora, per tutti i luoghi. Anche se era aprile la neve ricoprì anche Valllata, fino ad Ariano arrivò la tremenda gelata….ogni volta che la tramontana soffia forte mia nonna Marietta, seduta davanti al fuoco, mi dice sempre “Vedi, vedi come soffia zia Vecchia, è arrabbiata, ora sicuro viene una bella nevicata”.
Un potere, quello delle Janare, che si tramanda di generazione in generazione. E così la Janara che ha consegnato le sue memorie in un libro va alla ricerca della figlia abbandonata nel bosco grazie all’aiuto di Ginevra e Michele che proveranno a risolvere quel mistero, a svelare la sua identità “Figlia di strega/stregata dalla cattiveria/divenni cattiva/illudendo il nobile al mercato/vendevo per povertà le carni./Ogni volta che qualcuno bussava alla mia porta sbilenca liberavo l’amore/ e subito dopo/gli mangiavo il cuore”. Un libro complesso, spiega l’autrice, come complesso è l’universo delle janare e delle donne. Un libro che non consegna nessun finale definitivo, come ci ricorda Emanuela “Non è la fine, ma un nuovo inizio. Perchè ogni janara ha un vissuto che merita di essere ascoltato, riscoperto, svelato”