Più di un italiano su tre – il 36% degli aventi diritto – non è andato al seggio lo scorso 25 settembre, rinunciando non solo all’esercizio di un diritto costituzionale, ma implicitamente rifiutandosi di concedere a chiunque la rappresentanza delle proprie opinioni politiche. A questa fetta importante dell’elettorato bisogna aggiungere quanti – pare molto numerosi – non hanno espresso alcuna preferenza o hanno annullato la scheda, con ciò esprimendo totale sfiducia in tutti i partiti che si sono presentati alle elezioni. Il dato, in crescita nelle ultime tornate, è preoccupante perché manifesta una crisi della democrazia rappresentativa, che è il sistema consacrato nella Costituzione italiana nella forma di una Repubblica parlamentare, che affida alle Camere elettive, dove siedono appunto i “rappresentanti” del popolo, i più ampi poteri a cominciare da quello di dare o revocare la fiducia al governo. Una quota così ampia di rifiuto della delega ci deve interrogare sulla trasformazione in corso non da oggi nel nostro sistema politico, con conseguenze non di poco conto sulla sua stessa tenuta. Un utilizzo fisiologico, cioè ampio, della delega di poteri dagli elettori ai parlamenti, dà luogo a sistemi politico-istituzionali stabili, capaci di esprimere esecutivi autorevoli in grado di governare e di adeguare lo sviluppo della società alle esigenze del momento, introducendo le riforme necessarie. Se la rappresentanza viene meno, da che cosa viene sostituita? Che cosa chiedono gli elettori ai partiti, meglio ai leader, cui si rivolgono? Prevalentemente non vogliono essere rappresentati ma garantiti, sostenuti, in una parola “protetti”; ed è questo il motivo per il quale da un’elezione all’altra trasmigrano da un partito all’altro, alla ricerca non di chi meglio li rappresenti ma di chi sperano possa garantire loro una forma di protezione sociale, adempiendo le promesse o le speranze riposte nel precedente destinatario del consenso, che ha deluso le aspettative. In un’intervista alla “Stampa” Romano Prodi ha valutato il successo di Giorgia Meloni come “la naturale prosecuzione di una storia che dura da anni: gli italiani vanno alla ricerca del ‘fenomeno’. I partiti sono destrutturati e si vota per emozioni”. Effettivamente negli ultimi anni i “fenomeni” si sono riprodotti con sequenza frenetica, spesso nutrendosi dei medesimi apporti di consensi: si va dal 40,8% di Matteo Renzi (europee 2014), al 33% dei Cinque Stelle (politiche 2018), al 34% della Lega (europee 2019). Da questo punto di vista il successo dei Fratelli d’Italia domenica scorsa è se vogliamo meno clamoroso, visto che il partito di Giorgia Meloni si è fermato “solo” al 26%; ma la trasmigrazione degli elettori è ben più consistente: buona parte dei sei milioni di voti guadagnati rispetto al 2018 provengono dalle altre formazioni del centrodestra che evidentemente avevano deluso le attese. Sono evidenze che dimostrano l’estrema fluidità dell’elettorato e la progressiva inconsistenza del richiamo ideologico o anche semplicemente programmatico: quei sei milioni di cittadini non hanno votato Meloni per promuovere il “sovranismo” contro l’europeismo, così come quel 64% di elettori di Scampia che hanno scelto i Cinque Stelle non l’hanno certo fatto perché sono contrari al degassificatore di Piombino o alla consegna di armi all’Ucraina. Insomma, anche questa tornata elettorale, che pure ha dato risultati clamorosi, non garantisce la stabilizzazione del sistema, e quindi anche la leader di FdI e prossima presidente del Consiglio, se vorrà durare dovrà cercare di soddisfare – se può – le esigenze di protezione magari inconfessate che i suoi nuovi elettori le hanno presentato.
di Guido Bossa