Stiamo per salutare un 2021 ancora dominato dalla pandemia e si avvicina, salvo sorprese elettorali, la parte finale di una legislatura a tratti inverosimile e surreale. A marzo del 2018 non ha vinto nessuna forza politica e da allora fino ad oggi è accaduto di tutto. I Cinque Stelle, inizialmente contrari ad ogni alleanza, stringono un’intesa prima con la Lega e poi con il partito democratico senza mai cambiare il Presidente del Consiglio. Una legislatura nata come la legislatura della rivoluzione populista, anti Unione europea e che si chiude con un premier che è una sorta di monumento alla Ue, all’euro, alle banche e che guida una maggioranza con dentro quasi tutte le forze politiche che sono passate dalla maggioranza all’opposizione senza mai spiegare veramente le motivazioni di queste scelte. Uniche eccezioni: Fratelli d’Italia, sempre all’opposizione e Cinque Stelle sempre al governo alleati di chi volevano combattere e spazzare via, assumendo nel tempo decisioni molto diverse rispetto a quelle di partenza. E’ toccato al Capo dello Stato parlare sia al Paese che al palazzo. Mattarella ha gestito tensioni e pulsioni divergenti e ha tenuto il filo di una legislatura complicatissima rimarcando la capacità italiana “di essere uniti sulle grandi scelte perché lo spirito del Paese è sempre stato costruttivo e collaborativo, reciprocamente rispettoso, e deve diventare un tratto stabile dei rapporti istituzionali”. Parole che lette oggi sono la normalità ma tre anni e mezzo apparivano illusorie. La pandemia, la crisi sanitaria ed economica hanno cambiato le priorità degli italiani restituendo al nostro Paese una credibilità internazionale che adesso non bisogna disperdere. L’azione di governo avviata da Draghi e l’impulso dato alle riforme è stata possibile anche perché i partiti hanno fatto una sorta di passo indietro con un senso di responsabilità dovuto soprattutto al momento di grande difficoltà causato dal periodo eccezionale in cui stiamo vivendo. Una fase destinata, naturalmente, ad esaurirsi ma questa responsabilità andrebbe alimentata e proiettata sulle scelte per il Quirinale evitando di tornare ad un sistema partitico rissoso e diviso. L’opportunità da coltivare è quella di chiudere una stagione che si è aperta con la seconda Repubblica, quando finite le ideologie, ogni leader politico ha cominciato a giocare partite personali. Un protagonista della Prima Repubblica come l’ex ministro Cirino Pomicino in una recente intervista ha detto che “l’ideologia implica che il dato di realtà debba corrispondere al pensiero. Ad essere finite sono le culture di riferimento, ovvero la presenza di determinati criteri per leggere la realtà. Penso alla cultura liberale, socialista, repubblicana, cattolico-democratica. E poi nella Prima Repubblica c’erano partiti democratici al loro interno e non personali. Solo il Pci prevedeva che il segretario lo restasse fino alla morte, ma nel chiuso delle stanze esisteva un forte dibattito. Nei partiti di oggi mancano culture di riferimento, democrazia interna e contendibilità della leadership”. La vera crisi è cominciata esattamente quando il legame tra eletto ed elettore è venuto meno, il distacco dalle comunità di appartenenza è certamente colpa delle leggi elettorali con meccanismi come i listini bloccati o i collegi blindati che impediscono all’elettore di scegliere. L’unico legame che si è creato è tra il parlamentare e il suo capo partito o capo corrente, un criterio basato solo su un’apparente fedeltà che colloca il potenziale eletto in una posizione di privilegio. Eppure nonostante questa sorta di cordone ombelicale gli ultimi dati ci dicono che in Parlamento ci sono stati 267 cambi di gruppo politico e il gruppo misto è arrivato a 113 parlamentari tra Camera e Senato quasi tutti provenienti dalle file del Movimento Cinque Stelle. Un trasformismo dovuto alle convenienze e ad una più complessiva crisi di sistema.
di Andrea Covotta