Il controverso dibattito sul reddito di cittadinanza e sulle misure governative per eliminarlo entro il 2023, ci consiglia di prendere in esame, con rigorosa serenità, le risultanze dei non pochi rapporti sulla povertà in Italia. L’ultimo rapporto, presentato recentemente a Roma, è quello della Caritas. In esso viene ripreso il concetto di povertà intergenerazionale, cioè la povertà di lungo periodo che attraversa più generazioni. È significativo prendere atto che in Italia servono in media 5 generazioni, per arrivare a disporre di un reddito medio, se nasci in una famiglia povera. La metafora usata, per rendere metabolizzabile questo dato, è quella dei “pavimenti appiccicosi” e dei “soffitti appiccicosi” per spiegare meglio il fatto: chi viene da una famiglia povera fatica a salire la scala sociale, rimanendo appiccicato al suo triste pavimento; chi viene da famiglie ricche non scende facilmente, conservando la sua salda connessione con il tetto del tenore di vita raggiunto. Quindi l’ascensore sociale è fermo, non scende e non sale e la necessaria politica di manutenzione funzionale è purtroppo, “ap – piccicata” anch’essa a tale ascensore, perché chi dovrebbe scendere, anche se di poco, sceglie egoisticamente la comoda posizione del “soffitto appiccicato”. La stessa ricerca dimostra come la povertà intergenerazionale pesi per quasi il 60% dei casi. Per esempio solo l’8% dei giovani con genitori senza titolo superiore ottiene un diploma universitario, quando la media di Paesi Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo) è del 22%. Quindi staccare persone e famiglie dai pavimenti appiccicosi è un compito arduo, ma importante. In Italia il Reddito di Cittadinanza era stato immaginato come uno strumento capace di concorrere positivamente a questo transito. La ricerca ha evidenziato che il sussidio raggiungerebbe meno del 44% dei poveri assoluti. Poiché quest’ultima fascia demografica, in Italia secondo l’ISTAT, comprende nel 2021, cinque milioni e 600 mila persone, e l’Inps dice che i beneficiari del Rdc sono 3,4 milioni, la differenza è di poco superiore a due milioni di individui, esattamente due milioni e 200 mila. Quindi il Rdc non raggiunge tutti i poveri. Da questo quadro statistico bisognerebbe partire per ogni seria ipotesi di modifica che, bisogna sottolinearlo, risulti efficace per soddisfare le esigenze del mondo del lavoro, con la dovuta positiva incidenza e la necessaria trasparenza. Uno dei capisaldi di tale auspicata modifica è la formazione professionale degli “occupabili” cioè di quelli senza patologie invalidanti e con una età compatibile con i ritmi dei lavori da svolgere. Chi dovrebbe fare questa formazione? Certamente lo Stato, con una strategia condivisa delle forze sociali e con i datori di lavoro, coerentemente con le dimensioni e le specificità produttive delle aziende, senza, per altro, trascurare alcune vocazioni attitudinali delle persone da occupare. Vanno, altresì, rivisti i compiti del Centri per l’Impiego e le competenze professionali dei tutor e di altre figure professionali che la nuova strategia operativa dovesse ritenere necessarie. In buona sostanza lo Stato dovrebbe delineare una credibile politica di lotta alla povertà, dando dignità a chi può e deve lavorare e sostegno a chi non è in grado di poterlo fare. Gli stringenti requisiti per l’accesso al Rdc, senza gli strumenti concreti di sostegno, determinano scoraggiamento o ricorso ad affannose e, talora, non credibili reperimenti documentali. Tenere, frattanto, in considerazione quelle che “non ci entrano” nella fascia dei requisiti richiesti o quelli che sono entrati in condizione di povertà da poco pur disponendo di un minimo di patrimonio. Poi ci sono i “furbetti” per i quali bisogna evitare il collegamento tra l’essere percettori del Rdc e l’essere lavoratori in nero. In sintesi riformare il Rdc si può, ma serve molta cautela. Non dimenticare che bisogna deporre gli orpelli ideologici che ha certamente appesantito il dibattito e opacizzato le strategie da mettere in campo. Prevalga, quindi, la consapevolezza che abbiamo a che fare con un “materiale umano” molto delicato. Serve pazienza, tempo, molta precisione con la priorità di tutelare, sempre e comunque, il valore universale della persona.
di Gerardo Salvatore