Sin dall’inizio di questa legislatura il governo Meloni ha deciso di dare una precisa connotazione al suo operato. L’esecutivo ha scelto di rivolgersi soprattutto al suo elettorato di riferimento e non a tutto il Paese. Scelte nette che trovano l’ostilità delle opposizioni che però marciano divise e non sembrano in grado nel breve periodo di offrire risposte unitarie. Il partito che appare più alla ricerca di una identità e di una missione è il Pd. Da quando è nato nel 2007 non ha mai vinto un’elezione, eppure è stato più volte al governo esprimendo tre Presidenti del Consiglio: Letta, Renzi e Gentiloni. Un’anomalia che lo ha fatto diventare il partito dell’establishment e dei garantiti come ha scritto Carlo Galli mentre i temi propri della sinistra sono rimasti sullo sfondo. Il partito democratico dovrebbe per questo dare vita ad un’altra idea politica e tornare a parlare a mondi che oggi non si sentono rappresentati a partire da quelli della precarietà e delle disuguaglianze. La definizione di un percorso diverso passa però in secondo piano e si parla molto di più di chi dovrà succedere ad Enrico Letta. Proliferano i candidati alla segreteria e nemmeno il magro risultato elettorale (sotto il 20 per cento in due elezioni consecutive) ha avuto un effetto rigenerante. In attesa del congresso, fissato a marzo del 2023 ma c’è chi vorrebbe anticiparlo, ci sono alleanze da stringere in vista delle regionali ed è ovvio che il bivio Calenda-Renzi o Conte porta in direzioni completamente diverse. Alle ultime politiche la divisione ha portato alla sconfitta mentre la coalizione, guidata da Giorgia Meloni, ha saputo interpretare meglio una legge elettorale, peraltro scritta e voluta dal Pd, che è appunto premia i partiti che si presentano insieme e non divisi. Al di là dei numeri, resta, dunque, una fragilità di fondo e una incapacità di riflettere e analizzare gli errori commessi. Ha scritto Alessandro De Angelis che “la sfasatura rispetto alla realtà è tutta in questa gestione ordinaria di una sconfitta straordinaria che mette in discussione i fondamenti di un partito che non parla dell’unica cosa di cui dovrebbe parlare: del fatto cioè che la sinistra ha perso perché si è persa, da anni, innanzitutto come ragione sociale: sradicamento dai territori e dal lavoro subordinato, espulsione dal cuore delle giovani generazioni, incapacità di inventare una narrazione e un popolo, che non è un dato sociologico, ma una costruzione politica. E gli artefici di questa catastrofe sarebbero in grado di fare una Bad Godesberg o una Epinay? In attesa di un novello Brandt o Mitterand di questi tempi basterebbe un Nanni Moretti minore: con questi dirigenti non vinceremo mai. Almeno, un segnale di vita”. Il segnale è arrivato due settimane fa dal Brasile con la vittoria di un uomo della sinistra Lula, contro una sorta di Trump sudamericano, il presidente uscente Bolsonaro. Il sistema sudamericano ha poco da spartire con quello europeo e in particolare con quello della sinistra italiana ma è comunque un modello che offre degli spunti di riflessione a partire dall’attenzione verso le politiche sociali e le fasce più deboli della popolazione. Guardare a Lula, un uomo che ha perso molte volte ma si è sempre rialzato, ha senso non per replicare un modello di governo molto diverso dal nostro, ma perché la strada della rivincita c’è ma solo per chi sa percorrerla. L’errore da non commettere è, dunque, quello di immaginare una ripartenza autenticamente figlia di un cambio di passo interno evitando di rincorrere esempi americani come quelli di Obama e Biden o europei come quelli in epoche diverse di Blair, Zapatero e perfino del greco Tsipras.
di Andrea Covotta