La questione delle accise sui carburanti, il primo passo falso del governo Meloni a meno di cento giorni dal suo insediamento, rivela insieme i punti di debolezza e di forza di un esecutivo che fino a ieri sembrava marciare col vento in poppa. Non c’è dubbio che si sia trattato di un incidente di percorso, di una battuta d’arresto. Nel giro di due giorni il Consiglio dei ministri è dovuto intervenire per modificare il decreto sulla tassazione della benzina e per rimangiarsi l’accusa di speculazione lanciata contro i gestori delle pompe, che aveva fortemente irritato una delle categorie chiave del bacino elettorale della destra italiana. Ora la minaccia dello sciopero è congelata, ma improvvisamente Giorgia Meloni sì è trovata in difficoltà, dovendo misurare la distanza fra le promesse elettorali e la realtà di un’economia ancora in difficoltà, che non consente di accontentare tutti. L’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi, che Mario Draghi aveva tenuto sotto controllo pur destinando cifre consistenti alla riduzione delle bollette, dipende dal fatto che la legge di bilancio appena approvata ha stornato fondi per alleggerire il carico fiscale di contribuenti “privilegiati” e soddisfare le pretese di potenti lobby economiche. Prendersela con i benzinai era una scappatoia facile ma scorretta. Giorgia Meloni l’ha capito rapidamente, e per risalire la china del dissenso è scesa in campo con tutta la potenza della sua capacità comunicativa, inondando di messaggi i canali televisivi e i social. Questo è indubbiamente il suo punto di forza, unitamente all’assenza di una opposizione in grado di giocare la sua partita con qualche chance di successo. L’ha riconosciuto per primo, con amarezza, il segretario del Pd Enrico Letta, quando ha rilevato che il suo partito, impegnato in una lacerante discussione sulle modalità di voto alle primarie, non aveva il momento di debolezza del governo, sbagliando un rigore a porta vuota. L’episodio rivela però anche un più generale punto di debolezza del governo, che è frutto di una coalizione elettorale fortemente squilibrata a favore di una componente, nella quale i due partiti minori – Lega e Forza Italia – faticano a far valere i loro punti di vista e rischiano di essere oscurati da quello che nei fatti oltre che nel nome è il vero “grande fratello”. Il disagio degli alleati è palese: Silvio Berlusconi non nasconde la propria insoddisfazione per non essere ascoltato come si converrebbe ad un leader della sua esperienza; Salvini sembra inabissato: nel governo Giorgetti da una parte e Piantedosi dall’altra contano più di lui. Altri sono poco più che comparse. Attorno alla presidente del Consiglio si è creato un “cerchio magico” composto dai sottosegretari alla Presidenza e da un paio di ministri uno dei quali è il cognato della premier (il “cerchio magico” diventa cerchia famigliare). La squadra è compatta e coesa, e fin qui ha marciato bene. Anche il primo ostacolo è stato superato, ma altri se ne prospettano. Uno è l’appuntamento elettorale di metà febbraio con le regionali di Lazio e Lombardia, dove la coalizione di governo si presenta unita mentre le opposizioni vanno divise. Facile prevedere la vittoria delle destre, ma se ancora una volta si vedrà che il partito di Meloni surclassa gli alleati, questi potrebbero aversene a male. Sarebbe un paradosso, ma crescere troppo potrebbe non essere uno svantaggio.
di Guido Bossa