Sono ancora tante le domande senza risposta sul nulla come prima, dopo la pandemia. Come sempre accade, rispetto ai grandi sconvolgimenti globali-guerre, pestilenze, carestie – gli ottimisti ed i pessimisti costituiscono due schieramenti contrapposti.
Quello che non è in discussione è il coinvolgimento che la pandemia, ancora non del tutto debellata, ha costretto tutti a rivedere drammaticamente e in fretta i modi artificiali di vivere le relazioni e di giocare con esse sui media e sui social network nel vasto mondo dei consumi e delle mode diffuse.
E’ stata riscoperta la bellezza di tenersi la famiglia già esistente, come riparo dalle insidie esterne e come approdo sicuro, durante le tempeste esistenziali collettive. Il modello socio-economico e culturale post-moderno autoreferenziale ha mostrato limiti e carenze di prospettive certe per cambiare radicalmente le nostre relazioni con gli altri esseri umani, con la natura, con l’ambiente, con le arti, le scienze.
Tra gli ottimisti, frattanto, autorevoli studiosi delle relazioni sociali, non pochi in verità, propongono una “nuova cultura del sociale”, capace di generare un diffuso bene comune attraverso relazioni personali significative e concrete. Le paure collettive, vissute durante i periodi più acuti della pandemia, hanno dimostrato l’esistenza di un deficit di educazione razionale ed umana, dovuto anche ad una diffusa povertà comunicativa, delle poche azioni positivi pur presenti nei momenti più drammatici della pandemia. In particolare, qualche autorevole studioso afferma che l’idolatria, intrinseca alla modernità, intrappola la persona in se stessa, escludendola dalla dimensione relazionale. A sostegno di questa tesi viene richiamato il pensiero dell’antropologo Renè Girard, il quale nel confronto con Vattimo, evidenzia come dietro il pensiero debole post-moderno si nasconda il ritorno degli idoli e il totalitarismo politeista.
La pandemia, si sostiene, ha accelerato un processo di rivisitazione di “certezze” che non si sono rivelate tali. Attualmente, a partire dal nostro occidente opulento, riemerge il bisogno dell’incontro con l’altro.
Si auspica, quindi, l’epifania della relazione fraterna, nel cammino faticoso del quotidiano, nel sofferto percorso della sofferenza e nel sempre crescente livello del bisogno naturale ed immateriale in aumento.
Epifania non solo auspicata, ma motivata dalla consapevolezza che essere rimasti soli ci ha costretti a sperimentare una frustrazione reale che permette, ora e non oltre, una fioritura relazionale.
Il mantra psicologico che ha caratterizzato e che caratterizza ancora la modernità “devi essere te stesso da solo” è andato in crisi con le conseguenze della pandemia, denunciando le deleterie manipolazioni di una economia che spinge al consumo sfruttando in modo parassitario il bisogno della trascendenza delle relazioni dell’uomo e di una politica ridotta a teatro mediatico.
E’, dunque, necessario, attivarsi con una nuova cultura delle relazioni, spinti anche dalla consapevolezza che l’orizzonte futuro, non esclude sconvolgimenti drammatici, collegati alla crisi ecologica globale verso cui occorrono misure urgenti e radicali non ancora assunte.
Le generazioni non più giovani, sulla scorta dell’esperienza maturata, hanno il compito fondamentale di promuovere, in ogni ambito della vita sociale, la cultura delle relazioni umane per educare le giovani generazioni a riscoprire il “noi” al posto dell’“io”.
di Gerardo Salvatore